sabato 18 agosto 2007

Carlo d'Asburgo: l'ultimo Imperatore Santo. Esempio per chi ha responsabilità politiche in Europa


Pubblichiamo alcuni articoli su Carlo d'Asburgo, ultimo imperatore austro-ungarico beatificato da Giovanni Paolo II. Nel Corso dell'omelia di beatificazione, 3 ottobre 2004, il Santo Pontefice lo definì «un esempio per chi ha responsabilità politiche in Europa». Questo esempio viene seguito oggi dai nostri politicanti? I cosiddetti cattolici di destra e sinistra? Gli Asburgo e la figura del Beato Carlo vengono oggi ridicolizzati e sottovalutati, perchè veri governanti cattolici, da tanta stampa liberal-massonica; quella stessa massoneria che si adoperò per la distruzione dell'ultimo impero cattolico (cfr. "Avvenire", 1° ottobre 2004, p. 19) con la prima e disastrosa guerra mondiale e che oggi imperversa nella nostra società. Carlo si oppose invano alla guerra."Un esempio per chi ha responsabilità politiche in Europa" e questo vale tanto al laicismo degli "atei devoti" quanto al capital-comunismo globale. In una società da vitello d'oro, in cui satana sciolto dalle catene pretenderà sempre più diritto, con il suo falso potere, sulle anime e la libertà dei popoli ricordiamoci quanto detto da Don Ivo Cisar durante la predica-panegirico alla messa in onore del beato Carlo d'Asburgo, Lucinico-Gorizia, 23 ottobre 2004 sulla monarchia cristiana: " Se si intende la democrazia falsamente come un potere residente nel popolo che lo delega ai governanti, questi vengono autorizzati a fare quel che "piace al popolo" e la politica finisce in corruzione; ma la democrazia è solo un modo di designare il soggetto del potere che proviene da Dio (Rm 13,1), e quindi deve essere esercitato secondo la legge divina. Pertanto il sistema politico migliore non è una "democrazia" in cui il popolo corrotto elegge governanti corrotti che assecondano demagogicamente le sue voglie, ma la monarchia cristiana che osservando le leggi di Dio persegue il vero bene comune di tutti." Chi vuole intendere intenda! Noi preghiamo il Beato Carlo d'Asburgo e la Vergine Maria affinchè veglino e ci aiutino in questo momento decisivo della storia del mondo e dell'Europa.
Federico Intini
Associazione Studi Cavallereschi San Giuseppe da Leonessa
Carlo d'Asburgo. L'ultimo Imperatore cattolico

A Carlo d’Asburgo imperatore d’Austria e re d’Ungheria sono state riconosciute le virtù eroiche. Regnò negli anni della Grande Guerra, l’inutile strage che Carlo cercò di fermare senza successo e che portò al tramonto definitivo di quel che restava del Sacrum Imperium
di Paolo Mattei
È un giorno di primavera del 1922 a Funchal, sull’isola portoghese di Madeira. Nella cattedrale di Nossa Senhora do Monte 30mila persone assistono al funerale di un re trentaquattrenne. L’uomo, che era stato imperatore tra le prime macerie fumanti del secolo scorso, era morto povero ed esule in quell’isola dell’Atlantico tra le braccia dell’imperatrice sua moglie, il 1 aprile di quell’anno. La folla che si assiepa fuori e dentro la chiesa e la maggior parte degli isolani lo considerano un santo. Il suo nome era Carlo, Carlo I, imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Nelle ultime ore, ai dottori che tentavano invano di curargli la grave polmonite, chiedeva scherzando: "Comment allez-vous? Moi je vais bien!". Ha il volto sereno, l’illustre ospite dell’isola, e la gente è là per salutare un’ultima volta l’uomo che per cinque mesi ha confortato con la sua presenza le loro vite. Il vescovo di Funchal dirà qualche tempo dopo a un prete austriaco: "Nessuna missione ha concorso così efficacemente a ravvivare la fede nella mia diocesi quanto l’esempio che diede il suo imperatore nella sua infermità e nella sua morte". Lo scorso aprile, ottantuno anni dopo quel giorno di primavera, alla presenza del Papa, gli sono state riconosciute le "virtù eroiche", primo passo sulla via della beatificazione. Nella notte prima di morire, Carlo aveva sussurrato alla moglie: "Tutta la mia aspirazione è sempre di conoscere il più chiaramente possibile in tutte le cose la volontà di Dio e di eseguirla, e precisamente nella maniera più perfetta". Era un’aspirazione che lo aveva accompagnato durante tutti i giorni della sua vita. La carriera di un imperatore Nato a Persenbeug sul Danubio, nella Bassa Austria, il 17 agosto 1887, Carlo era il primogenito dell’arciduca d’Austria Ottone Francesco — nipote di sua altezza imperiale e reale Francesco Giuseppe — e di Maria Giuseppina, nata principessa di Sassonia. Come ogni rampollo della sua stirpe, fu indirizzato all’apprendimento delle varie lingue parlate nell’Impero, allo studio della musica, ai corsi ginnasiali e liceali, presso l’abbazia benedettina degli "Schotten" a Vienna, e agli studi universitari, con indirizzo giuridico, a Praga. Nel 1911 sposò Zita dei Borboni di Parma. Il matrimonio fu benedetto da papa Pio X il quale, in un’udienza privata a Zita, preconizzò per il consorte il futuro di imperatore e le rivelò che le virtù cristiane di Carlo sarebbero state un esempio per tutti i popoli. Dal matrimonio nacquero 8 figli, l’ultimo dei quali venne alla luce dopo la morte di Carlo. La carriera militare prese il via nel 1903 e terminò nel 1916, quando salì al trono. Carlo era infatti diventato principe ereditario alla morte dello zio Francesco Ferdinando, il cui omicidio, scintilla della grande deflagrazione bellica, si consumò il 28 giugno 1914. Pio X, subito dopo l’assassinio dell’arciduca a Sarajevo, inviò a Carlo, attraverso un alto funzionario vaticano, una lettera in cui lo pregava di far presente a Francesco Giuseppe il pericolo di una guerra che avrebbe portato immane sventura sull’Austria e su tutta Europa. Ma il contenuto dell’epistola venne conosciuto da chi brigava per favorire gli eventi bellici, e il funzionario vaticano fu bloccato alla frontiera italiana. Carlo si vide recapitare la missiva molto tempo dopo, in pieno conflitto, quando era ormai troppo tardi per scongiurarlo. Due anni dopo l’inizio delle ostilità, alla morte del prozio Francesco Giuseppe, Carlo divenne imperatore col nome di Carlo I: era il 21 novembre 1916. Il successivo 30 dicembre fu incoronato nella chiesa di Santo Stefano, cattedrale di Budapest, re apostolico d’Ungheria col nome di Carlo IV: la dualità della monarchia austroungarica risaliva al 1867, allorché, col riconoscimento dell’autonomia ungherese, i territori dell’Impero furono divisi in due blocchi: la Cisleitania, sotto l’amministrazione austriaca, e la Transleitania, sotto l’amministrazione ungherese. Le Costituzioni, i governi e i presidenti dei Consigli erano distinti, mentre le due parti conservavano in comune l’imperatore — imperatore d’Austria e re d’Ungheria — e i Ministeri degli Esteri, delle Finanze e della Guerra. Carlo ereditava una potenza in crisi e in declino: l’Austria-Ungheria era infatti già provata dall’espansione della Germania e dalle sconfitte subite da parte dell’Italia nel corso delle guerre d’indipendenza, e ora si vedeva minacciata anche nei suoi territori balcanici. Inoltre, dopo le prime vittoriose battaglie, le truppe imperiali erano malmesse. Se per quanto riguarda l’inizio del conflitto è vero quel che annota lo storico Victor Tapié (Monarchia e popoli del Danubio, Torino 1993), cioè che "l’esercito austroungarico si batté con un’energia costante e che, qualunque fosse la sua origine etnica, il soldato, legato da un sentimento personale di fedeltà, che non prendeva alla leggera, diede prova di sopportazione e di coraggio", è anche vero che già alla fine del 1915 la stanchezza e le perdite di vite umane avevano quasi preso il sopravvento. Metà dell’esercito regolare — male equipaggiato, tecnologicamente arretrato, insufficientemente finanziato — fu eliminata già nei combattimenti del 1914. Le sorti della guerra per gli austroungarici dipendevano interamente dalla potenza alleata tedesca. Carlo giunse al fronte il 10 settembre 1914, in Galizia, e chiese subito di poter visitare, a nome dell’imperatore, le truppe in prima linea. Si recava a trovare i soldati in tutti i settori dei vari fronti, decorava gli ufficiali meritevoli e forniva a Francesco Giuseppe rapporti non falsati sulla situazione militare, non nascondendogli che il conflitto, col passare dei mesi, si andava trasformando in una carneficina senza precedenti. I fanti erano mandati al massacro con la folle tattica degli attacchi frontali all’arma bianca. Carlo assunse il comando del XX Corpo nel 1916, l’anno degli eccidi di Verdun, della Somme e delle prime nove battaglie dell’Isonzo; l’anno della comparsa sui campi di battaglia dei carri armati inglesi. Il suo operato fu decisivo per sconfiggere la Romania e per arrestare l’avanzata, sul fronte orientale, dei russi comandati dal generale Brusilov. Intraprese l’offensiva sul fronte italiano che culminò con la vittoria di Folgaria. Ma le macerie e gli stermini di quei vittoriosi scontri gli erano insopportabili. I tentativi attuati da Carlo per avviare trattative di pace ebbero inizio proprio nel momento in cui l’Alleanza austrotedesca raccoglieva i successi più significativi. Parlando al ministro degli Esteri austriaco, conte Berchtold, gli disse che non capiva come si potesse continuare "a non fare ancora nessun programma per la pace. In ogni caso, sia che, se Dio vuole, si vinca, sia che si vada verso la sconfitta, bisogna fissarlo con i diversi alleati. Io non posso e non voglio essere pessimista". Da allora, per trovare una soluzione pacifica a quella tragica guerra, il futuro imperatore non fece altro che battere tutte le possibili strade diplomatiche. E continuò a percorrere pure quelle vere, che si inerpicavano tra le trincee delle prime linee. Nella Positio super virtutibus sono raccolte le testimonianze su piccoli episodi accaduti in questi frangenti. Si legge che "logorò totalmente, recitandolo in segretezza, il rosario d’oro che portava sempre con sé, così che in seguito la giovane arciduchessa dovette procurargliene uno nuovo". È raccontato di quando salvò la vita ad un suo sottoposto che stava per annegare nell’Isonzo in piena. È registrata la deposizione del cappellano Rodolfo Spitzl che, lungo la strada della val d’Astico verso Arsiero, durante una marcia forzata della truppa, vide il futuro imperatore occuparsi personalmente di un soldato il quale, per le piaghe, non riusciva più a camminare: "Non credo", disse Carlo all’ufficiale medico, "che lei ed io avremmo marciato con simili piedi così a lungo come quest’uomo. Provveda al più presto ch’egli parta per un convalescenziario". Padre Spitzl racconta di come lo vide tranquillizzato quando seppe "che nel reggimento si dava poca importanza alle "funzioni religiose di parata" e che si cercava innanzitutto di procurare almeno una volta al mese ad ogni suddivisione — anche in posto di combattimento — l’occasione di ascoltare la santa messa e ricevere i santi sacramenti". Sono anche questi piccoli episodi a dare un’idea della fede di Carlo. E del carattere fermo con cui si faceva obbedire. Ad esempio quando si oppose all’uso dei gas letali contro il nemico, contestando l’ordine del capo di Stato maggiore tedesco Hans von Seeckt che li voleva adoperare sul fronte orientale. Oppure quando si batté contro l’impiego dei sottomarini per colpire le città nemiche che si affacciavano sull’Adriatico, in primo luogo Venezia.
Dalla "guerra di potenza" alla "guerra metafisica"
Da imperatore, Carlo assunse automaticamente il comando supremo di tutte le sue truppe. Tra le sue prime decisioni, ci fu il trasferimento della sede del comando supremo da Teschen a Baden, vicino a Vienna, così che gli sarebbe stato più facile esercitare i compiti politici e militari. Ma trascorse più giorni al fronte che a Baden perché partecipava alla vita delle truppe recandosi continuamente nelle prime linee per le ispezioni; riceveva rapporti diretti da tutti i comandanti, che conosceva personalmente; si trovò ripetutamente sotto la grandine degli shrapnel dei campi di battaglia. E tra il 1916 e il 1918 mise in atto con ancor più ostinazione tentativi per far cessare le ostilità, tanto che i tedeschi lo accusarono di viltà, perché conoscevano solo una "pace vittoriosa". Proprio per attuare la sua politica, Carlo nominò nuovi ministri scegliendoli tra le persone che non avevano tramato per favorire la guerra. L’imperatore sapeva anche che la pace sociale del suo Paese era condizione fondamentale e necessaria per giungere alla pace mondiale. Per questo istituì un Ministero per l’Assistenza sociale e uno per la Salute pubblica, abolì la pratica del duello e concesse nel 1917 l’amnistia generale. Anche la questione dei nazionalismi che infiammavano il Regno metteva a rischio la pace interna e allontanava quella internazionale. Ecco perché progettò uno Stato su base federalistica, volendo realizzare il proposito di Francesco Ferdinando. François Fejtó´ nel libro Requiem per un impero defunto (Milano 1990), spiega che, come immaginato da Francesco Ferdinando, Carlo "avrebbe voluto eliminare dalla Costituzione ungherese tutto quel che avrebbe potuto frapporsi come ostacolo a eventuali concessioni ai serbi e a tentativi di trasformare il dualismo. Si proponeva anche di dare soddisfazione agli autonomisti cechi, che, come altri slavi e, in generale, tutte le forze pacifiste della monarchia — in particolare i socialisti —, erano stati incoraggiati dai segni precursori della rivoluzione russa del febbraio 1917". Ma una prospettiva federalista, con annesso suffragio universale, non poteva piacere all’aristocrazia magiara al potere in Ungheria. Leo Valiani, nel libro La dissoluzione dell’Austria-Ungheria (Milano 1966), spiega che alle "riforme democratiche, che avrebbero dovuto garantire la monarchia dallo sfacelo, nel caso di una pace che avrebbe comunque significato una confessione di sconfitta militare, si opponevano a priori sia la maggioranza del Parlamento ungherese, sia i partiti austrotedeschi del Reichsrat, ad eccezione dei soli socialdemocratici". In sede internazionale Carlo vedeva nelle relazioni con la Francia la possibilità più concreta per accordarsi sulla pace. Così scrisse al presidente della Repubblica Poincaré, il 24 marzo 1917, in una missiva segreta: "Sono particolarmente felice di constatare che, benché ci si trovi attualmente in campi avversi, nessuna fondamentale differenza di prospettiva o di aspirazioni divide il mio Impero dalla Francia; credo di essere in diritto di sperare che la viva simpatia che nutro per la Francia, sostenuta dall’affetto che essa ispira a tutta la monarchia, impedirà per sempre il ritorno a uno stato di guerra, per il quale declino ogni personale responsabilità". Grazie a questa vicinanza, nel 1917 il principe Sisto di Borbone — cognato di Carlo, discendente dei re francesi, decorato da Poincaré con la croce di guerra al valore — iniziò a condurre assieme a Carlo una trattativa diplomatica tra Francia e Impero. Trattativa che doveva essere mantenuta segreta per non destare sospetti tra i tedeschi. Carlo naturalmente aveva a cuore una pace da raggiungersi assieme alla Germania, ma non escludeva che, se il Kaiser non avesse accettato una eventuale positiva via d’uscita dal conflitto (che aveva come condicio sine qua non la restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena e la libertà dei Paesi invasi), l’Austria avrebbe fatto parte a sé, staccandosi dall’Alleanza e firmando una pace separata. Questo esperimento andò a monte, oltre che per la difficoltà a trovare un accordo definitivo sui territori rivendicati dall’Italia, soprattutto per l’atteggiamento irresponsabile del ministro degli Esteri austriaco Ottokar Czernin. Lo storico Gordon Brook-Shepherd nel libro La tragedia degli ultimi Asburgo (Milano 1974) individua nella nomina del ministro degli Esteri un errore fondamentale compiuto da Carlo, perché Czernin non aveva mai cercato la pace, ed era un amico incondizionato di quei tedeschi desiderosi che la guerra non terminasse se non dopo la loro vittoria totale. Infatti, Czernin, nel 1918, fece in modo che il presidente del Consiglio francese Clemenceau rivelasse al mondo il segreto negoziato imperiale sulla pace separata, mettendo così a rischio la vita dell’imperatore e la sicurezza dell’Austria nei confronti della Germania. Carlo fu costretto ad una pubblica marcia indietro. Era la vittoria di coloro che, spiega Fejtó´, avevano "l’ossessione di una vittoria totale […]. Nel corso della guerra — che si impantanò più di una volta su dei punti morti, dai quali si usciva tradizionalmente con il negoziato o il compromesso — si presentò un’idea inedita: quella della vittoria totale, a tutti i costi. Si trattava non più di costringere il nemico a cedere, a indietreggiare, ma di infliggergli delle piaghe incurabili; non più di umiliarlo, ma di distruggerlo. Questo concetto della vittoria totale condannava a priori al fallimento qualunque ragionevole tentativo di mettere fine, con un compromesso, a un inutile massacro. Cambiò la guerra non soltanto "quantitativamente", ma anche, per adoperare il concetto hegeliano, qualitativamente. L’idea non era nata soltanto per l’esasperazione dei capi militari di fronte al fallimento o alla paralisi di battaglie che essi avevano ritenuto decisive. Né proveniva dai gabinetti dei diplomatici, dalle cancellerie. Sembrava levarsi dalle profondità popolari. Aveva un accento quasi mistico. Era ideologica. Consisteva nel demonizzare il nemico, fare della guerra di potenza una guerra metafisica, una lotta fra il Bene e il Male, una crociata". La vittoria di questa idea fu così ricordata da Augusto Del Noce in un appunto inedito: "Il rifiuto della complicità con il male coincise per me con la "fuga senza fine" davanti a quel che mi appariva il male, la progressiva distruzione di quanto restava del Sacrum Imperium. La fedeltà all’impegno dell’agosto 1916, prima che per me iniziasse la scuola". Pensando anni dopo a tutto questo, il socialista radicale francese Anatole France disse di Carlo: "È l’unico uomo decente, emerso durante la guerra, ad un posto direttivo; ma non lo si ascoltò. Egli ha desiderato sinceramente la pace, e perciò viene disprezzato da tutto il mondo. Si è trascurata una splendida occasione".

Il pianto per l’inutile strage
La guerra continuava e l’imperatore Carlo I viveva, coi soldati di tutte le nazioni coinvolte, tra le macerie e la morte delle trincee. Erano gli anni delle "notti violentate", vissute in dormiveglia, dall’altra parte della barricata, dal milite Ungaretti: "L’aria è crivellata / come una trina / dalle schioppettate / degli uomini / ritratti / nelle trincee / come le lumache nel loro guscio". Nell’agosto del 1917, al termine dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, il fotografo di corte Schumann vide Carlo piangere davanti ai cadaveri carbonizzati e dilaniati, e lo sentì sussurrare: "Nessun uomo può più rispondere di questo davanti a Dio. Io faccio punto, quanto prima possibile". In Austria — e dovunque in quasi tutta Europa — c’era penuria di viveri; la povertà, la fame e la morte erano le vere vincitrici di quel conflitto. Carlo lo sapeva, e ridusse al minimo il tenore di vita nella sua casa, dove lui e la sua famiglia si nutrivano con le razioni di guerra. Al comando supremo di Baden, Carlo rifiutò il pane bianco facendolo distribuire tra i malati e i feriti e, davanti ai suoi ufficiali confusi, mangiava tranquillamente pane nero. Organizzò cucine di guerra, impiegò i cavalli di corte per l’approvvigionamento del carbone a Vienna, regalò ed elargì più di quanto si potesse permettere. Intanto l’alleato tedesco pensava di ricorrere ad armi più distruttive. Durante un pranzo con il grande ammiraglio Alfred von Tirpitz, il quale lo voleva convincere a bombardare, con aeroplani e sottomarini, le città italiane, Carlo rifiutò e lasciò la tavola. Era, oltre che il disastro veduto ogni giorno, anche l’intelligenza politica che gli suggeriva di evitare i bombardamenti. Sapeva che questo avrebbe accelerato l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America e che ciò sarebbe risultato esiziale per il suo Paese. Ma in Germania non gli diedero ascolto. Nel febbraio del ’17 il kaiser Guglielmo II ordinò di praticare senza alcuna forma di tolleranza la guerra sottomarina e di affondare qualunque naviglio transitasse sulle rotte atlantiche. Fu il grande errore degli Imperi Centrali, perché Wilson ruppe gli indugi ed entrò in guerra a fianco dell’Intesa, prendendo, in pratica, il posto della Russia che, a ottobre dello stesso anno, sarà travolta dalla rivoluzione, e a dicembre firmerà con la Germania l’armistizio di Brest-Litovsk. Nonostante tutti i tentativi di Carlo, la pace non fu raggiunta con le armi della diplomazia, ma con quelle da fuoco. Il 1918 fu l’anno della capitolazione. Sul Piave, sulla Marna, ad Amiens, a Vittorio Veneto e dovunque, il destino della Germania e dell’Impero austroungarico era segnato. Wilson enunciò i suoi "14 punti" per il mantenimento della pace mondiale. La Romania firmò il trattato di pace con l’Intesa, la Bulgaria si arrese, la Cecoslovacchia e la Polonia dichiararono la loro indipendenza, la Turchia sottoscrisse l’armistizio e il Kaiser abdicò permettendo la nascita, l’anno successivo, della debole Repubblica di Weimar. Durante il precipitare degli eventi, Carlo si trovò isolato mentre le strade di Vienna andavano riempiendosi di folle tumultuanti. L’11 novembre firmò un manifesto in cui dichiarava: "Riconosco a priori ciò che l’Austria tedesca deciderà in merito alla sua scelta della futura sua forma di Stato. Il popolo ha assunto il proprio governo per mezzo dei suoi rappresentanti. Io rinuncio a qualsiasi partecipazione al governo dello Stato. Contemporaneamente esonero dal suo mandato il mio governo austriaco". Fidandosi di alcuni uomini politici che gli garantivano il mantenimento della dinastia se lui avesse pubblicamente lasciato al popolo la libertà di decidere sul futuro assetto dello Stato, Carlo firmò questo manifesto consapevole che non era un’abdicazione, che lui non avrebbe mai sottoscritto per non venire meno al giuramento fatto davanti a Dio quando divenne imperatore. La sua intenzione era quella di ritirarsi momentaneamente dagli uffici pubblici per assecondare l’insistenza con cui glielo chiedevano gli uomini di governo e per evitare un inutile spargimento di sangue. Ma il 12 novembre fu proclamata la caduta della monarchia e la sera stessa Carlo si vide costretto a lasciare Vienna per il suo castello di caccia a Eckarstau, a venti chilometri dalla capitale. Intanto l’Ungheria era in piena rivolta e il primo ministro Tisza veniva assassinato dai rivoluzionari. Nella Postio super virtutibus si legge che "malgrado tutta questa situazione il Servo di Dio continuò ogni sera a dire il Te Deum, e lo fece cantare il 31 dicembre 1918 in ringraziamento di tutto ciò che aveva apportato l’anno che spirava. Gli era stato proposto di tralasciarlo, egli però rispose che in quell’anno vi erano state troppe grazie per le quali doveva ringraziare". E a quanti gli chiedevano perplessi quali fossero queste grazie, Carlo rispondeva: "Se quest’anno è stato duro, poteva essere ben più tragico per tutti noi. Se si è disposti a prendere dalla mano di Dio ciò che è buono, bisogna anche essere disposti ad accettare con riconoscenza tutto ciò che può essere difficile e doloroso. Del resto, quest’anno ha visto la tanto sospirata fine della guerra, e per il bene della pace vale qualsiasi sacrificio e qualsiasi rinuncia". E Carlo dovette rinunciare anche alla sua permanenza in Austria, dove la situazione si faceva sempre più pericolosa per la sua vita e per quella dei suoi familiari. Il 23 marzo del 1919 la famiglia imperiale lasciò il Paese per la Svizzera e il 3 aprile il governo austriaco sanciva ufficialmente l’esilio del sovrano e la confisca dei suoi beni. Ed è dalla Svizzera che Carlo tentò due volte di tornare in Ungheria per restaurare il Regno. Su insistenza di numerosi uomini politici, militari e semplici cittadini, ma soprattutto di Benedetto XV, il quale, secondo la testimonianza dell’ultimo capo di gabinetto dell’imperatore, "si espresse ripetutamente circa la necessità di una restaurazione in Ungheria", Carlo intraprese due tentativi fallimentari di tornare sul trono, a marzo e a ottobre del 1921. Così non gli restò che la via dell’esilio. A quanti in quei momenti gli furono accanto, ripeteva: "Anche se tutto è andato a monte, dobbiamo ringraziare Dio, giacché le sue vie non sono le nostre vie".
"Gesù"
"Il 19 novembre 1921, festa di santa Elisabetta, ecco apparire l’isola dell’esilio […]. L’imperatore scorge le due torri mozze di una chiesa. "Quale nostalgia risveglia in me quella chiesa!" esclama. "E come mi ricorda le chiese del mio paese! È certamente una chiesa dedicata alla Madonna: andiamola subito a visitare". Era Nossa Senhora do Monte, Nostra Signora del Monte, la chiesa in cui pochi mesi dopo doveva trovare sepoltura": così Giuseppe Della Torre (Carlo d’Austria. Una testimonianza cristiana, Milano 1972) racconta l’arrivo di Carlo a Madeira. Carlo vivrà per altri cinque mesi, e durante la sua permanenza il popolo si accorse che quell’uomo aveva qualcosa di più importante dello stesso titolo imperiale. "Carlo ebbe l’occasione di avvicinare tante persone; di aprire con tutti un rapporto umano, immediato; di contagiare tutti con gli sprazzi della propria personalità, ricca di sentimenti e di attenzioni per il prossimo. Fu così che la prima simpatia piena di compassione dimostrata dagli abitanti dell’isola nei confronti suoi e della sua consorte, si tramutò ben presto in un manifesto entusiasmo, che divampò negli animi di tutti". Sono quasi tutti là i cittadini di Funchal, quel giorno di primavera del 1922. Vogliono salutare ancora una volta quel loro amico che si era congedato da loro e dalla vita terrena pronunciando come ultima parola un semplice nome: "Gesù". Quel giorno, a Funchal e dovunque, non ci sono più imperi o imperatori a rappresentare il popolo cristiano in Europa e nel mondo. Quell’uomo, quell’imperatore trentaquattrenne, aveva commosso gli abitanti di Madeira per qualcosa che non aveva niente a che fare con il suo titolo regale e con la potenza che tale titolo aveva significato. Forse era l’affetto con cui pronunciava quel semplice nome che li aveva colpiti in quei cinque mesi. La stessa cosa che, forse, aveva commosso tutti coloro che lo avevano conosciuto, a corte o nelle dolorose trincee di inizio secolo. Forse l’unica difesa per il popolo cristiano era proprio l’affetto per quel semplice nome pronunciato, così tante volte implorato dall’ultimo imperatore.


Carlo d'Asburgo l'ultimo Imperatore. Santo

di Francesco Pappalardo

[Da " il Domenicale", anno III, n. 34, 21 agosto 2004]

Per chi crede che i re santi siano personaggi da Medioevo, cioè di un periodo storico non ben definito, lontano nel tempo e soprattutto irripetibile nella sua essenza, suonerà senz'altro sorprendente la beatificazione, il 3 ottobre prossimo, dell'imperatore Carlo, morto non nell'anno Mille ma nel 1922. Chi era costui? Carlo I d'Asburgo-Lorena, pronipote di Francesco Giuseppe (1830-1916), lui sì ben noto agli italiani, magari come Cecco Beppe, è stato l'ultimo sovrano dell'impero austro-ungarico, l'erede di una dinastia che ha guidato il Sacro Romano Impero per oltre cinquecento anni, l'ultimo imperatore europeo.Sulla figura di questo personaggio sorprendente è appena uscito il libro "Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d'Asburgo" (D'Ettoris Edizioni, Crotone 2004, pp. 224 con ill.), scritto a due mani da Oscar Sanguinetti e Ivo Musajo Somma, con un Invito alla lettura di don Luigi Negri, della Fraternità di Comunione e Liberazione, il quale colloca l'esperienza di santità di Carlo d'Asburgo nella grande tradizione cattolica europea, che ha avuto nell'impero asburgico la sua forma più significativa e di cui Carlo è figlio esemplare.Marco Invernizzi, storico del movimento cattolico italiano, nella Prefazione sottolinea che la beatificazione del sovrano tiene conto non solo del suo ruolo di marito e padre esemplare, di cristiano devoto in tutte le circostanze difficili della sua esistenza, ma anche del modo in cui ha esercitato le funzioni inerenti al suo rilevante ruolo pubblico. Invernizzi invita l'Italia che entra in Europa a guardare come a un modello all'«imperatore santo», fautore di un non facile federalismo e sostenitore di una politica dell'integrazione, realistica e anti-ideologica, che non fece in tempo a realizzare. Sanguinetti, direttore dell'Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale (ISIIN), di Milano, spiega nella presentazione, intitolata appunto "Perché un libro su Carlo d'Asburgo", che è intenzione degli autori rinverdire la memoria del santo sovrano nell'anno della beatificazione e proporre una lettura semplice della sua vita.Il volume si compone di due saggi. Il primo, dello stesso Sanguinetti, "Immagini e momenti della vita del beato Carlo d'Asburgo", traccia un breve profilo biografico del protagonista, con l'intento di fare agiografia, ma agiografia «storica», cioè fondata non su leggende ma su fatti accertati e attinti dalle deposizioni rese dagli 86 testimoni ascoltati nelle udienze del processo di beatificazione. I testi delle deposizioni sono raccolti nei due volumi dal titolo "Positio super virtutibus", messi gentilmente a disposizione dall'avvocato Andrea Ambrosi di Roma, ultimo postulatore della causa di Carlo.Nel secondo saggio, "Il beato Carlo d'Asburgo nella «finis Austriae»", Musajo Somma, ricercatore universitario, specializzato in storia del Medioevo, offre una lettura critica -alla luce dei principali studi pubblicati, anche recentemente, in lingua italiana, inglese e tedesca- su Carlo e il suo tempo, inquadrandone la figura nel contesto europeo. Completano il volume un'intervista al postulatore Ambrosi su "L'iter verso la beatificazione e i suoi «nodi»", una cronologia, una bibliografia e un indice dei nomi, curati dall'ISIIN.La narrazione affronta sinteticamente i momenti principali della vita di Carlo: la formazione giovanile del futuro imperatore, nato nel 1887; la carriera militare, come per tutti i potenziali sovrani; il matrimonio, nel 1911, con la principessa italo-francese Zita Maria delle Grazie di Borbone-Parma, che gli darà otto figli; l'assassinio dello zio Francesco Ferdinando a Sarajevo nel luglio 1914, che modifica la linea di successione al trono facendo di Carlo l'erede designato; la partecipazione alla prima guerra mondiale su entrambi i fronti, orientale e occidentale; la morte dell'ottantaseienne Francesco Giuseppe, il 21 novembre 1916, e l'ascesa del giovane pronipote ai troni d'Austria, di Boemia e d'Ungheria. Il suo breve regno è segnato profondamente dalla guerra, che egli vive al fronte e nella capitale con un misto di abnegazione e ardimento, mitezza e sollecitudine per le truppe al fronte, le famiglie a casa e la popolazione civile.Contrario all'impiego di sottomarini su larga scala, perché non facevano distinzione fra militari e civili, porrà limitazioni alla guerra aerea e compirà ogni sforzo per bandire l'uso dei gas asfissianti.Questa idea - un po' medievale e molto cattolica - della guerra limitata, gli alienerà le simpatie dei comandi germanici, influenzati dai circoli militaristici e nazionalistici.Costoro vanificheranno i suoi ripetuti sforzi di pace nel 1917, che saranno osteggiati anche della massoneria, molto influente, soprattutto nei paesi latini, sui parlamenti e sui sovrani.La dinastia asburgica pagava in questo modo la sua opposizione alle logge, che cercavano di portare alle ultime conseguenze la traduzione politica dell'ideologia libertaria e ugualitaristica della Rivoluzione del 1789, trovando un ostacolo non solo nella Chiesa cattolica ma anche negli eredi del Sacro Romano Impero. Dopo la sconfitta, Carlo rifiuterà di abdicare e verrà allontanato da Vienna con la complicità delle potenze vincitrici; falliti due tentativi di restaurazione, subirà, fra gravi disagi, l'esilio finale nell'isola atlantica di Madera, dove si spegnerà il 1° aprile 1922, degno testimone di quelle radici cristiane europee che i suoi nemici di allora e di oggi si ostinano a voler recidere.


Il Papa elegge a modello un re

di Vittorio Messori

[Dal "Corriere della Sera", 3 ottobre 2004]

Tra i cinque nuovi beati proclamati oggi da Giovanni Paolo II, tre rientrano nella «normalità»: due religiosi e una suora, fondatrice di una Congregazione. Gli altri due che giungono agli altari fanno invece parte di quei casi difficili che solo il decisionismo di questo Papa è riuscito a sbloccare dopo traversie, opposizioni tenaci, polemiche. Per Anna Katharina Emmerick i problemi sono stati interni alla Chiesa. Una mistica stigmatizzata, una veggente, una creatura vissuta per 11 anni di sola eucarestia ed acqua. Un personaggio del genere non era di certo congeniale ai teologi e alle alte gerarchie, gruppi umani tra i più tentati dallo scetticismo, magari dal razionalismo. Non a caso la Passione di Gesù, «vista» dalla Emmerick dal suo letto di paralizzata, ha fortemente segnato Mel Gibson: i gruppi cattolici tradizionali, ai quali il regista ed attore è vicino, scorgono in questa straordinaria carismatica un’antidoto al modernismo di cui accusano l’intellighenzia cattolica. Ma lo stesso Sant’Ufficio, almeno un paio di volte, ordinò di archiviare la pratica. L’arrivo in porto, dopo oltre un secolo e mezzo, è una sorta di prova di forza dello stesso Papa che è riuscito a beatificare Pio IX, contro il quale militavano potenti lotti. Difficoltà soprattutto esterne alla Chiesa, invece, per la glorificazione di Carlo I, ultimo imperatore dell’impero austroungarico. Uomo sul quale si appuntarono gli odi convergenti sia della sinistra repubblicana e del liberalismo massonico sia del nazismo. Progressisti e reazionari marciarono uniti contro questo giovane sovrano e la sua memoria. In Hitler, l’avversione per l’ultimo Asburgo, raggiunse picchi patologici, da bava alla bocca. Per quanto riguarda l’Italia, bisogna ricordare che al rovesciamento di alleanze (dalla triplice con l’Austria e Germania, all’Intesa con Francia e Inghilterra) e all’intervento in guerra, nel 1915, parteciparono attivamente gli esponendi del radicalismo democratico e delle Logge. Agiva, in essi, il vecchio desiderio di spazzare via la monarchia austriaca, erede del Sacro Romano Impero, bastione del cattolicesimo, nutrita ancora di tradizioni Ancien Regime. Quell’impero andava distrutto e con esso gli asburgo «papisti». Quanto al nazional socialismo: non a caso l’austriaco Adolf si sottrasse alla chiamata alle armi del suo Paese, che detestava, e si arruolò volontario con le truppe bavaresi. Anche per lui, l’antica monarchia era esecrabile per la fede religiosa che onorava pubblicamente e per la tolleranza verso le otto nazionalità dell’Impero. L’avversione hitleriana ingigantì quando, nel 1916, alla morte di Francesco Giuseppe, salì al trono il giovane Carlo che era noto per il suo cattolicesimo militante e che si rese addirittura colpevole di ciò che per il militarismo tedesco era un tradimento abominevole. La proposta, cioè, di intavolare trattative con il nemico per giungere a una pace equa, senza vinti né vincitori. Se la Grande Guerra non terminò almeno un anno e mezzo prima, risparmiando all’Europa qualche milione di morti (e all’America l’intervento) lo si deve alla rabbiosa opposizione di sinistre e destre, unite, ai tentativi di pace di Carlo I. Il quale, d’accordo con il Papa nel considerare quella lotta una «inutile strage», fu oggetto d’odio di radicali e di nazionalisti, di liberali massoni e di fautori della guerra come igiene del mondo e come volontà di potenza. Personaggio ammirevole, quest’ultimo imperatore morto a 35 anni di stenti, relegato in un’isola dell’Atlantico. In lui, sembrano rivivere le virtù leggendarie dei re medievali. Mentre Cadorna (e, con lui, tutti gli altri Signori della Guerra) invasati dalla mistica dell’assalto in massa, siluravano i generali che non esibissero un alto numero di caduti, Carlo I destituiva i comandanti che registravano perdite troppo alte tra i loro soldati. Mentre i franco-inglesi e i tedeschi cercavano gas sempre più micidiali, il comandante supremo della Duplice Monarchia cedette all’ira, per la prima volta nella sua vita, quando seppe che le divisioni tedesche sfondarono a Caporetto con l’uso massiccio degli asfissianti. Al fronte, dicevano i generali, si mangiava assai meglio che al palazzo di Vienna, dove la famiglia imperiale campava con la tessera alimentare di operai e contadini. All’amore del popolo, faceva contrasto l’odio dei ricchi e dei privilegiati per la sua politica di giustizia sociale secondo gli insegnamenti della Chiesa. Figura poco studiata, questa di Carlo I, perché «politicamente scorretta» per gli ideologi del Novecento. Ma la Chiesa non lo ha dimenticato e, da oggi, lo prega sugli altari e lo propone come esempio ai governanti.

mercoledì 8 agosto 2007

Vieni con me perchè ti conviene combattere da valoroso guerriero


L'esperienza di San Pio da Pietralcina ci insegna a vivere la vita cristiana come combattimento spirituale. Cristo ci vuole al Suo seguito come " valorosi guerrieri" che si scagliano senza timore su satana e le sue perverse macchinazioni. La migliore arma, così come la chiamava anche San Pio, da impiegare contro satana in questo tipo di guerra è il Santo Rosario.
Federico Intini
Associazione Studi Cavallereschi San Giuseppe da Leonessa
Negli ultimi giorni di dicembre 1902, mentre stava meditando sulla sua vocazione, Francesco ebbe una visione. Ecco come la descrisse, diversi anni dopo, al suo confessore (nella lettera usa la terza persona): "Francesco vide al suo fianco un uomo maestoso di rara bellezza, splendente come il sole, che presolo per la mano lo incoraggiò con il preciso invito: "Vieni con me perché ti conviene combattere da valoroso guerriero". Fu condotto in una spaziosissima campagna, tra una moltitudine di uomini divisa in due gruppi: da una parte uomini dal volto bellissimo e ricoperti di vesti bianche, candide come la neve, dall'altra uomini di orrido aspetto e vestiti di abiti neri a guisa di ombre oscure. Il giovane collocato fra quelle due ali di spettatori, si vide venire incontro un uomo di smisurata altezza da toccare con la fronte le nuvole, con un volto orrido. Il personaggio splendete che aveva al fianco lo esortò a battersi con il personaggio mostruoso. Francesco pregò di venire risparmiato dal furore dello strano personaggio, ma quello luminoso non accettò: "Vana è ogni tua resistenza, con questo conviene azzuffarti". Fatti animo, entra fiducioso nella lotta, avanzati coraggiosamente che io ti sarò dappresso; ti aiuterò e non permetterò che egli ti abbatta". Lo scontro fu accettato e risultò terribile. Con l'aiuto del personaggio luminoso sempre vicino, Francesco ebbe la meglio e vinse. Il personaggio mostruoso, costretto a fuggire, si trascinò dietro quella gran moltitudine di uomini di orrido aspetto, fra urla, imprecazioni e grida da stordire. L'altra moltitudine di uomini dal vaghissimo aspetto, sprigionò voci di plauso e di lodi verso colui che aveva assistito il povero Francesco, in sì aspra battaglia. Il personaggio splendido e luminoso più' del sole, pose sulla testa di Francesco vittorioso una corona di rarissima bellezza, che vano sarebbe descriverla. La corona venne subito ritirata dal personaggio buono il quale precisò: "Un'altra più bella ne tengo per te riservata. Se tu saprai lottare con quel personaggio col quale or ora hai combattuto. Egli tornerà sempre all'assalto... ; combatti da valoroso e non dubitare nel mio aiuto...non ti spaventi la di lui molestia, non paventare della di lui formidabile presenza... . Io ti sarò vicino, io ti aiuterò sempre, affinché tu riesca a prostrarlo". Tale visione fu seguita, poi, da reali scontri col maligno. Padre Pio sostenne infatti numerosi scontri contro il "nemico delle anime" nell'arco della sua vita, con il proposito di strappare le anime dai lacci di satana.

lunedì 6 agosto 2007

Il Cingolo antico e lieve. L’Ordine della Cavalleria tra iniziazione sacramentale ed appartenenza onorifica.


di Adolfo Morganti
Associazione Studi Cavallereschi San Giuseppe da Leonessa

Introduzione. Un necessario “Ritorno al reale”.

Il nostro argomento richiede una premessa: non avrebbe per noi senso disporsi ad un approfondimento del rapporto tra appartenenza onorifica ed iniziazione sacramentale nell’esperienza cavalleresca se ciò non fosse reso opportuno dalla persistenza di un’esperienza reale e concreta, quella della Cavalleria cristiana europea, e dalla percezione del suo attuale valore storico, culturale e spirituale.
Finché vi saranno in Europa persone che sentiranno in sé il fascino dell’archetipo del Cavaliere1, e ancor di più finché qualcuno si sentirà vocato alla Via della Cavalleria (e negli ultimi anni queste sembrano paradossalmente aumentate di numero) grazie a quanto questa Istituzione ha dato alla storia e all’identità del nostro continente, questo interesse profondo, che continuiamo a pensare non ridotto alla ricerca di vuote decorazioni e pompe esteriori, sarà segno di una vitalità spirituale reale e strumento essenziale per la nuova evangelizzazione dell’Europa. E perciò stesso degno di approfondimento e meditazione2.
Inoltre, ulteriore constatazione che – sia pure in negativo – comprova la necessità di prendere sul serio il presente argomento, siamo ammorbati oramai da decenni da una pletora pressoché infinita di pseudo-ordini cavallereschi3, frastagliate e litigiose congreghe neotemplari, esoteristi d'accatto in vena di incursioni cavalleresche, legioni di cercatori del Graal usciti dal dopolavoro new age4 e dalle edicole delle stazioni; questo sottobosco di liberi parolieri e di mestatori hanno invaso i media con decine di pseudoricerche infarcite di pseudorivelazioni, utili solamente a deformare la già scarsa e difficile comprensione che l'uomo contemporaneo è in grado di avere - aldilà del fascino che prova per esso - per il mondo spirituale dell'Età di Mezzo in generale, e della Cavalleria in particolare.
Per non confondersi – in primo luogo - con questo florido settore del famigerato "supermarket delle religioni", e per opporre alla marea dei deliri pseudostorici e settari un fondamentale rispetto per quanto è stato, per l’oggettiva lezione della storia, è necessario previamente effettuare quello che Gustave Thibon ha definito un “Ritorno al reale”5: aldilà di ogni invenzione e deformazione, cercheremo di procedere dal punto fermo di un assoluto rispetto per l'esperienza storica e spirituale della Cavalleria; in termini antropologici, privilegiando l'autocomprensione dei protagonisti della spiritualità cavalleresca ad ogni tipo di astrazione ed interpretazione successiva, comunque motivata.


La tradizione.

Come l’Europa stessa, la Cavalleria si è formata gradualmente, assimilando e fondendo in sé elementi eterogenei sia da un punto di vista culturale che spirituale. In maniera efficace un illustre storico cattolico argentino scrive: «La Cavalleria non è una delle tante istituzioni che sono apparse nel corso della storia, fondate da un Papa o decretate da un Re. Sebbene, col passare del tempo, la cavalleria si trasformò in un’istituzione caratterizzata da uno spirito profondamente cristiano, alle sue origini non presenta alcun elemento che ricordi gli inizi di un ordine religioso»6.
Così come l’insieme della cultura e dell’identità europea, la Cavalleria ci appare come una lenta distillazione e fusione di elementi eterogenei e non di rado contraddittori, che nel corso dei secoli si fondono in un insieme organico e vivente grazie ad un reagente comune di tipo prettamente spirituale: la civiltà cristiana. Alla radice di questa lenta fusione di elementi diversi in un medesimo crogiolo traspare la continuità di un dato culturale e religioso di lunghissima durata: la sacralizzazione del guerriero e della sua funzione all’interno della società, parte integrante di una più ampia concezione del mondo che gli storici della religione sono oramai usi definire “tradizionale”, e nella quale il concetto che una qualsiasi attività umana potesse essere abbandonata a sé stessa, ossia all’insignificanza della profanità, era del tutto inconcepibile7.
Il lavoro del crogiolo, che fonde elementi iranici, greco-romani, celto-germanici al fuoco della Rivelazione cristiana, raggiunge la condizione di amalgama in coincidenza – affatto casuale – con la pienezza del Medioevo europeo, tra XIII e XV secolo, di cui diviene un aspetto cardinale: ne sia immediata controprova la maturazione della trattatistica sul tema, da Bernardo di Chiaravalle8 a Raimondo Lullo9, e la diffusione capillare in quello stesso periodo della letteratura cortese, in particolare graalico-arturiana10, vero e proprio “manifesto ideologico” della visione del mondo cavalleresca.

La Cavalleria acquista quindi, come al termine di un lungo processo di decantazione, una compiuta coscienza di sé al tempo delle Crociate: così Mario Polia, in un ormai celebre saggio, ne tratteggia il cuore: «Il Cavaliere, ossia (...) quella figura di carismatico consacrato che, nella sua realizzazione più alta e ideale, meritò l’epiteto di Miles Christi a significare sia la vocazione al combattimento che la legittimazione e il fine ultimo del medesimo: la difesa del Regno di Dio sulla terra e l’esaltazione della gloria di Cristo Re. Il Miles Christi, infatti, appartiene a Cristo, esercita la sua militia in nome di Cristo ed in Cristo ripone ogni sua speranza. (...)
La Cavalleria, dunque, è Via di santificazione mediante l’esercizio della militia e delle virtù militari. Dovuto a questa sua qualità specifica, la Cavalleria si configura giustamente come Ordine.
È Ordine perché è stata istituita direttamente da Dio per difendere l’Ordine cristiano ma, come istituzione storica, precede il Cristianesimo.
È Ordine perché possiede una propria tradizione e regole proprie, fondate sul Vangelo, attraverso le quali il Miles raggiunge la propria santificazione ed, inoltre, perché attraverso il rito dell’investitura la grazia agisce sulla persona trasformandone la natura, facendo del Cavaliere un combattente di Cristo e dotato dell’assistenza divina necessaria allo svolgimento della sua funzione di Miles.»11.
Il Cavaliere sul piano esistenziale percorre quindi una Via di santificazione per mezzo delle pratiche proprie al suo stato, così come nel Medioevo facevano anche il monaco e l’artefice, le tre “figure esemplari” che ressero l’immagine ideale della società degli uomini fino ai tempi della rivoluzione francese12. Ed essendo una Via di santificazione, essa alla sua radice deve sorgere da una vocazione, ossia da una chiamata interiore che non dipende da scelte sociali o individuali, di pari dignità seppur diversa dalla vocazione sacerdotale o monastica: «...all’origine della scelta del Cavaliere vi è una chiamata la quale rivela una vocazione ed un carisma “militare”. Non si entra a far parte della Cavalleria in base a calcoli d’interesse, orgoglio o motivati da spinte emozionali. La militia presuppone, infatti, una vocazione la quale manifesta qualità innate che contraddistinguono un combattente. Queste qualità, quando sono autentiche manifestazioni dell’anima e non velleità della mente, sono doni di Dio, talenti che il cristiano deve mettere a servizio di Dio perché fruttino al meglio. Su queste qualità innate s’innesta feconda la grazia veicolata dal sacramentale dell’investitura, alimentata dalla disciplina e dalla pratica della militia, dalla vita spirituale, dalla preghiera e dal Cibo eucaristico. L’investitura è, tipologicamente, un’iniziazione: è l’iniziazione guerriera cristiana ma, affinché l’iniziazione sia valida e il potere spirituale da essa veicolato possa agire occorre che questo trovi la materia prima su cui agire: la “sposa” cui unirsi per la nuova generazione spirituale.»13.
E pur tuttavia la presenza nella persona concreta di questa vocazione, una condizione ovviamente necessaria, non è di per sé sufficiente all’ingresso della persona medesima nella Via della Cavalleria: nella concezione cristiana essendo la vocazione un dato naturale – ossia proprio alla concreta realtà della persona umana - essa deve essere perfezionata da un sigillo spirituale, da una specifica “grazia di stato”, che in quanto tale è Dono divino e pertanto può essere solamente trasmessa per mezzo di un apposito rituale: «...per far parte dell’Ordine della Cavalleria non basta possedere la qualificazione interiore e la volontà poiché occorre essere regolarmente investiti. Il rituale d’investitura cavalleresca, sviluppatosi e modificatosi nei secoli a partire da pratiche rituali militari precristiane (si pensi, ad esempio a quelle romane, germaniche, celtiche) è stato fissato permanentemente, nella sua forma canonica, nel Pontificale Romano di S.S. Pio V. Dopo l’ultimo Concilio il rituale d’investitura, pur essendo considerato desueto e pur non facendo più parte del Novus Ordo, non è stato abolito.
Gli elementi costitutivi del rituale d’investitura cavalleresca sono l’accinzione del cingolo, della spada e degli speroni; lo schiaffo (militaris alapa) e la “collata” data con la spada e accompagnata dalla formula d’investitura. Elementi accessori, presenti nell’investitura data dal vescovo secondo il rito del Pontificale Romano, sono la benedizione della spada e la benedizione del nuovo Cavaliere»14.


Il Rituale di investitura cavalleresca nel Pontificale Romano “Tridentino”.

Il riferimento a quel cardinale documento che è il Pontificale Romano promulgato da Papa Clemente VIII, successore di San Pio V, nel 1595-1596 si impone quindi nell’orizzonte dei problemi cui abbiamo accennato con tutta l’autorevolezza di un testo canonico e di riferimento anche negli anni presenti. Esso stesso frutto della progressiva decantazione di una tradizione liturgica plurisecolare, all’indomani del Concilio di Trento fissò le forme della trasmissione sacramentale dell’investitura Cavalleresca, assieme ad altre forme liturgiche che per il nostro percorso assumono un valore del tutto peculiare.
Non a caso, nell’orizzonte della riscoperta del senso profondo della Tradizione centrale nei Pontificati delle Loro Santità Giovanni Paolo II ed attualmente Benedetto XVI, una particolare attenzione è stata riservata alla riscoperta critica della completezza dei Testi liturgici frutto dell’ampio lavoro del Concilio di Trento. Segno evidentissimo di questa rinnovata attenzione è stato il grande progetto editoriale di riedizione in anastatica dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini promosso dalla Libreria Editrice Vaticana a partire dal 1996, per la cura minuziosa dei Padri Salesiani Manlio Sodi ed Achille Maria Triacca15.
La citazione ci consente di eliminare immediatamente un argomento tanto frequentato quanto infondato: come ognun ben sa, nel percorso culminato nel Concilio Vaticano II la riforma dei testi liturgici della Chiesa cattolica ha condotto nel 1961-62 alla stesura di una rinnovata versione del Pontificale Romanum, che rispetto a quello “tridentino” di cui stiamo parlando presenta una serie di cospicue differenze, fra le quali spicca nell’ottica del presente lavoro l’assenza del Rituale di investitura cavalleresca16. Non è ovviamente mancato chi, argomentando sulla base di questa assenza nel nuovo testo, ha preteso di interpretare come “abbandonato” se non addirittura come “anacronistico” il Rituale in oggetto assieme alla figura ed alla funzione del Cavaliere, caso specifico ma cruciale di una diffusa moda culturale all’interno di parte del mondo cattolico degli anni ’70 ed ’80 che vedeva nel Concilio Vaticano II una cesura ed una rivoluzione, operante un taglio netto nei confronti del passato della Chiesa cattolica: per cui tutto ciò che non fosse stato recuperato e reinterpretato dalla nuova Chiesa conciliare avrebbe dovuto appunto essere relegato nel limbo di un passato di cui “purificarsi”. Una siffatta concezione dello sviluppo del corpus liturgico cattolico è evidentemente viziata da uno spiccato pregiudizio ideologico, come è dimostrato nel nostro specifico caso dalla seguente considerazione di Mons. Raffaele Farina, Rettore della Pontificia Università Salesiana al tempo della riedizione: «Accostarsi… ai libri liturgici editi in attuazione delle disposizioni conciliari tridentine è toccare con mano (…) una realtà in sé complessa e quanto mai articolata. Si tratta di una ricchezza di contenuti che ha plasmato la spiritualità cristiana per ben quattro secoli, e continua ancor oggi – in una linea di ininterrotta “tradizione” – a illuminare l’itinerario di fede e vita del popolo cristiano»17. Non di “rivoluzione” o di cesura si deve quindi parlare, ma del cammino nel tempo di una medesima comunità di fede, che riflette nei cambiamenti dei propri Libri liturgici il proprio parlare a tempi ed uomini nuovi, senza assolutamente tagliare le radici della propria storia: una continua ed immensa ricapitolazione18.
Non a caso, sul terreno della prassi liturgica e sacramentale cattolica, anche dopo la pubblicazione del Pontificale del 1961-1962 all’interno della Chiesa cattolica sono stati mantenuti precisi spazi di utilizzo pubblico del Rituale di investitura cavalleresca secondo il Pontificale tridentino19.

Ciò detto, possiamo entrare molto brevemente all’interno della struttura del Pontificale Romanum tridentino. Esso si presenta suddiviso in tre Parti, la cui prima (pagg. I – 278 dell’edizione originale), composta da 31 Capitoli, contiene a pag. 274 (Capitolo 29) il Rituale dell’investitura cavalleresca, titolato De benedictione novi Militis. Non sarà inutile riportare l’Indice di questa prima parte del testo:

De confirmandis.
De Ordinibus faciendis.
De Clerico facendo.
De minoribus Ordinis.
De ordinatione Ostiarum.
De ordinatione Lectorum.
De ordinatione Exorcistarum.
De ordinatione Acolitorum.
De sacris Ordinibus in genere.
De ordinatione Subdiaconi.
De ordinatione Diaconi.
De ordinatione Presbiteri.
De consecratione Electi in Episcopum.
Forma iuramenti.
Examen.
De Pallio.
Forma iuramenti.
Dies, quibus Pallio ut ipotest Patriarcha, sive Archiepiscopus.
De benedictione Abbatis.
De benedictione Abbatis auctoritate apostolica.
De benedictione Abbatis auctoritate Ordinarii.
De benedictione Abbatissae.
De benedictione, et consecratione Virginum.
Anathema contra molestantes bona monialum, vel eas ad malum inducentes.
De benedictione, et coronatione Regis.
De benedictione, et coronatione Reginae.
De benedictione, et coronatione Reginae ut regni Dominae.
De benedictione, et coronatione Regis in consortem electi.
De benedictione novi Militis.
De benedictione ensis.
De creatione Militis regularis.

L’impianto stesso di questa successione di Rituale rende evidenti alcune considerazioni:
a) Trattasi della parte del Pontificale che in principio racchiude e compendia in sé le diverse applicazioni del Sacramento dell’Ordine sacro in tutti i livelli della Gerarchia sacerdotale (dagli Ordini minori alla dignità di Arcivescovo) e della vita consacrata (Abati ed abbadesse; Vergini consacrate) (capp. 1-24).
b) Successivamente, in un’articolazione gerarchica altamente significativa della natura sacramentale dei rituali stessi, vengono elencati e specificati i Rituali di investitura delle Persone Regali (capp. 25-28), e i diversi Rituali relativi alla figura del Cavaliere (capp. 29-31).
c) Relativamente a quest’ultimo gruppo di tre rituali specificamente connessi alla figura del Cavaliere, è bene evidenziare che si tratta di rituali fra loro ben diversificati, anch’essi riportati in ordine gerarchico:
c1) Il rituale di Investitura cavalleresco vero e proprio (cap. 29).
c2) Nel contesto del rituale suddetto, viene sottolineata con uno specifico richiamo nell’Indice l’importanza del rituale della Benedizione della spada del nuovo Cavaliere (cap. 30).
c3) Infine, vengono riportate le modalità essenziali relative all’accettazione di un Cavaliere all’interno di un Ordine militare (cap. 31).


La natura sacramentale dell’Ordinazione cavalleresca.

Per sottolineare ulteriormente la lucida continuità teologica e sacramentale tra le prescrizioni in ambito di Investitura cavalleresca del Pontificale Romanum tridentino e le attuali prescrizioni canoniche, è bene ora soffermarsi più partitamente sul significato del termine “sacramentale” all’interno della teologia cristiana cattolica contemporanea.
Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato da SS. Benedetto XVI il 28 giugno 2005, alla domanda n° 351. Che cosa sono i sacramentali? risponde con queste poche e precise parole:
«Sono segni sacri istituiti dalla Chiesa, per mezzo dei quali vengono santificate alcune circostanze della vita. Essi comportano una preghiera accompagnata dal segno della croce e da altri segni. Fra i Sacramentali, occupano un posto importante le benedizioni, che sono una lode di Dio e una preghiera per ottenere i suoi doni, le consacrazioni di persone e le dedicazioni di cose al culto di Dio»20.
Anche la Cavalleria si inserisce, da un punto di vista spirituale e giuridico, fra i sacramentali, essendo appunto una “consacrazione di persone” all’esercizio della Via cavalleresca. «L’investitura cavalleresca è per propria natura un “sacramentale costitutivo”. È un sacramentale perché, pur non avendo la natura e la superiore efficacia del sacramento che innesta direttamente l’uomo sul Corpo Mistico di Cristo, in quanto sacramentale veicola comunque una grazia speciale proveniente da Dio. Questa, tramite il Suo potere, agisce in un duplice modo: trasforma permanentemente la natura della persona consacrandola come Miles Christi e la dota dei mezzi spirituali atti a sostenere la christiana militia.
In questo senso, il rituale d’investitura può essere inteso come una riconferma della Cresima poiché come la Cresima consacra il cresimando (maschio o femmina) soldato di Cristo in spiritualibus, l’investitura cavalleresca riconosce valida e consacra la vocazione specifica del Miles autorizzandolo, se le circostanze lo impongono, a difendere anche materialmente a prezzo della propria vita il popolo di Dio. Allo stesso tempo il rituale d’investitura dota il Miles delle grazie necessarie al proprio stato. Queste grazie manifestano l’assistenza divina nei confronti della sua persona e della funzione che questa è chiamata a compiere.
Come avviene per i Sacramenti, anche il sacramentale dell’investitura cavalleresca possiede una propria forma e una propria sostanza: la forma è quella fissata dal rito canonico e prevede le operazioni rituali cui abbiamo accennato; la sostanza è la persona stessa del Cavaliere elevato dal rito alla dignità spirituale di Miles Christi.
Nella tradizione cavalleresca le uniche persone autorizzate a compiere il rito dell’investitura sono il Vescovo e il Cavaliere regolarmente consacrato da Vescovo, o da altro Cavaliere a sua volta regolarmente investito... Ovviamente, nell’investitura conferita da Cavaliere mancano gli elementi pertinenti alla dignità sacerdotale, come la benedizione della spada e del nuovo Cavaliere.
Quando queste condizioni vengano a mancare, o quando la forma del sacramentale risulti incompleta o alterata, il sacramentale cessa di essere tale per cui non si può parlare propriamente di “Cavaliere” né di “rito d’investitura”»21.


L’ingresso del Cavaliere in un Ordine o Organizzazione Cavalleresca.

Abbiamo appena sottolineato come all’interno della Prima Parte del Pontificale Romanum tridentino venga nettamente distinto il Rituale di Investitura cavalleresco (capp. 29-30) dalle modalità essenziali relative all’accettazione di un Cavaliere all’interno di un Ordine militare (cap. 31).
Il capitolo 31 del Pontificale, assai sintetico, recita così:
«De Creatione Militis regularis.
Cum summus Pontifex committit alique creari in Militem ordinis militaris, Pontifex, cui creatio huiusmodi commissa est, in primis imponit ei abitum illum, quo Milites illius ordinis, quem intendit profiteri, v(o)ti consueuerunt. Deinde recipit ab eo adhuc genuflexo professionem, per tales emitti solitam votorum, secundum illius ordinis instituta.»22.

Le prescrizioni del testo sono chiarissime: qualora un Cavaliere desideri entrare in un Ordine Militare (già evidentemente preesistente e nel contempo posto sotto l’Autorità della Santa Sede, in quanto viene specificato che il coinvolgimento nel Rituale del Romano Pontefice è conseguenza di una specifica commissio), il Pontefice impone al Cavaliere in primo luogo l’abito dell’Ordine in oggetto, e successivamente riceve dal medesimo Cavaliere, genuflesso, i voti secondo gli Statuti dell’Ordine in cui il Cavaliere desidera appunto entrare.

La distinzione fra i capp. 29-30 e 31, nell’articolazione rigorosa della Prima Parte del testo del Pontificale, rimanda sia ad una differenza di dignità fra i due rituali che ad una precisa scansione temporale fra gli stessi:
a) Appare chiaro al di là di ogni dubbio che l’Investitura alla dignità di Cavaliere rappresenta un Rituale con dignità sacramentale a sé stante (capp. 29-30), distinto e separato dall’appartenenza a qualsiasi Ordine Militare (cap. 31).
b) Nel contempo l’ingresso di un Cavaliere all’interno di un Ordine militare è gesto successivo all’acquisizione della dignità Cavalleresca, ed in presenza di una riconosciuta pluralità di Ordini militari la prescrizione liturgica rimanda esplicitamente agli Statuti di ogni Ordine. Non si tratta quindi né di una Benedictio né di una Consecratio, ma della ricezione da parte del Pontifex dei Voti espressi dal Cavaliere – già tale - secondo gli Statuti dell’Ordine in cui Egli desidera entrare.
c) Inoltre, è ben noto che l’ingresso in un Ordine Militare può avvenire prescindendo dall’avvenuta Investitura alla dignità cavalleresca, in forma onoraria, secondo una delle diverse formule distillate nei secoli dell’era moderna e contemporanea.


Le aggregazioni dei fedeli all’interno del moderno Codex Juris Canonicis.

A questo punto è assai interessante constatare come l’attuale ordinamento giuridico della Chiesa Cattolica mantenga precisi spazi aperti al desiderio dei fedeli di aggregarsi sulla base di una comune vocazione, non esclusa quella cavalleresca. Il nuovo Codice di Diritto Canonico promulgato da Papa Giovanni Paolo II, aprendo il Titolo dedicato a “Le associazioni dei fedeli” ai cann. 298-299 (Capitolo I – Norme comuni), recita:
«Can. 298. Nella Chiesa vi sono associazioni, distinte dagli istituti di vita consacrata e dalle società di vita apostolica, in cui i fedeli, sia chierici, sia laici, sia chierici e laici insieme, tendono, mediante l’azione comune, all’incremento di una vita più perfetta, o alla promozione del culto pubblico o della dottrina cristiana, o ad altre opere di apostolato, quali (…) animazione dell’ordine temporale mediante lo spirito cristiano. (…)
Can. 299. I fedeli hanno il diritto di costituire associazioni, mediante un accordo privato fra loro per conseguire i fini di cui al can. 298, §1… Tali associazioni, anche se lodate o raccomandate dall’autorità ecclesiastica, si chiamano associazioni private.»23
Beninteso, come specificato al Can. 301, «§2. L’autorità ecclesiastica competente, se lo giudica opportuno, può erigere associazioni di fedeli anche per il conseguimento diretto o indiretto di altre finalità spirituali alle quali non sia stato sufficientemente provveduto mediante iniziative private. § 3. Le associazioni di fedeli erette dall’autorità ecclesiastica si chiamano associazioni pubbliche»24.
In entrambi i casi (sia che si tratti di Associazioni di fedeli private che pubbliche), il Can. 307. precisa che «L’accettazione dei membri avvenga a norma del diritto e degli statuti di ciascuna associazione»25.
Gli Ordini Cavallereschi riconosciuti dalla Santa Sede rientrano quindi pienamente nei dettami del Can. 301 del CJC, mentre gli altri Ordini dinastici e le Congregazioni cavalleresche appaiono inquadrati giuridicamente nei Cann. 298 e 299, come parte integrante e storicamente gloriosa del millenario movimento di animazione cristiana del mondo che ha visto protagonisti i laici cattolici.
Questa constatazione non è affatto priva di conseguenze, in quanto fa uscire la Cavalleria dal novero delle testimonianze del Ben Tempo Andato, e la colloca nel cuore del contemporaneo processo di valorizzazione del contributo laicale al grandioso e cruciale processo della “nuova evangelizzazione”26.

Come ha ben sottolineato Mario Polia, «...una volta ricevuta l’investitura, quindi diventato Miles Christi, il Cavaliere è autorizzato a compiere la sua funzione non solo in quanto ha acquisito (come avveniva soprattutto un tempo) uno status sociale ma, innanzitutto, perché ha ormai raggiunto la categoria spirituale di appartenente all’Ordine della Cavalleria avendo ricevuto le grazie necessarie al proprio stato di combattente. La sua funzione, da quel momento, si esplica militarmente mediante il combattimento in difesa dei deboli e degli oppressi, quando ciò è necessario, ma, prima di tutto, si manifesta mediante un’assidua opera di charitas nei confronti della quale le condizioni contingenti di “guerra” o “pace” sono sostituite dalla pratica di una militia permanente, attiva sul piano della testimonianza a favore del prossimo e della lotta spirituale.
Per quanto riguarda la condizione del Cavaliere, questi può essere Cavaliere laico, e come tale può possedere dei beni, contrarre matrimonio e divenire padre, oppure può passare alla condizione di “Cavaliere professo” mediante la dichiarazione solenne dei voti di castità, povertà ed obbedienza. In questo caso, di norma, la professione avviene nel seno di uno degli Ordini Militari ancora esistenti. Tuttavia, previa l’autorizzazione dell’autorità religiosa, nulla impedisce che un Cavaliere divenga professo indipendentemente dall’appartenenza ad un Ordine militare perché, in quanto Cavaliere consacrato dal rito d’investitura, appartiene già all’Ordine della Cavalleria. In questo caso, il Cavaliere può aderire, ad esempio, agli statuti di una delle grandi famiglie monastiche derivate dalla Regola di San Benedetto, Regola che influì possentemente sulla struttura spirituale della Cavalleria.»27.


Conclusione: per la “nuova evangelizzazione” dell’Europa la Cavalleria è sempre necessaria.

E’ un paradosso interessante constatare come il panorama dei mutamenti della società post-moderna, impregnata di un relativismo aggressivo e dissolutorio, abbia provocato in via riflessa l’accrescersi di una nuova attenzione nei confronti dell’Istituzione Cavalleresca, millenaria creazione del genio europeo a contatto con la Rivelazione cristiana.
Nel contempo, il proliferare di falsi Ordini, imitazioni parodistiche e truffaldine dell’Istituzione Cavalleresca, lungi dallo svuotare di senso questa attenzione fascinosa ne sottolinea ancor più il carattere istintivo, sovente irriflesso ed ignorante, ma indubbiamente autentico.
Nel contesto della “nuova evangelizzazione” con cui la Chiesa e la cultura cattolica europea, stimolati dalla lezione di Papa Giovanni Paolo II, stanno reagendo alla diffusione di ciò che l’attuale pontefice ha definito «La dittatura del relativismo», la Cavalleria nella sua natura sacramentale, lungi dall’essere una reliquia di tempi andati, dimostra sempre più di possedere non solo una grande vitalità, ma ancor più una propria specifica vocazione:
«...il fine primario della Cavalleria cristiana è la santificazione del Cavaliere mediante il servizio prestato al prossimo, specialmente ai poveri e ai bisognosi, ai deboli ed agli oppressi. La militia del Cavaliere non riguardò (come un tempo) né riguarda solo la sua opera in tempo di guerra, se così fosse Cavalleria e militia diverrebbero inutili in tempo di pace mentre il concetto di “combattimento” che informa l’esistenza e l’opera del Cavaliere è un concetto ampio e ubbidisce alla definizione paolina della vita come militia super terram.
Si tratta, dunque, di un duplice combattimento quello cui da sempre il Cavaliere cristiano dedica la sua vita: esterno ed interno. Si tratta di un combattimento materiale e spirituale diretto non solo contro i nemici del popolo di Dio ma contro i nemici che s’annidano nel segreto della propria anima. Per questo, San Bernardo da Chiaravalle, supremo ed ultimo rifondatore della Cavalleria, fa questione di una duplice spada impugnata dal Miles: materiale e spirituale. Di esse la spada spirituale è di gran lungi la più importante: senza di essa, infatti, ogni combattimento risulterebbe non solo inutile ma illecito poiché senza la retta conoscenza e la retta intenzione la retta azione non può in alcun modo sussistere.»28.

«Oggi, il processo di scristianizzazione dell’Europa, orchestrato da una èlite contraria a Cristo ed alla Chiesa, avanza a grandi passi mentre si sta affermando a scala planetaria un’ideologia bassamente edonista, fondata sul calcolo personale, sul profitto economico di oligarchie internazionali e sugli interessi dei paesi industrializzati asserviti alla logica del denaro. Un’ideologia sostenuta dallo sfruttamento distruttivo degli ecosistemi, forte del potere delle armi e del capillare controllo delle coscienze, oggi si appresta a dirigere le sorti del pianeta, apparentemente senza incontrare ostacoli significativi. Come una diabolica parodia del sogno dell’Impero Universale cristiano.
Ed ecco, proprio oggi si aprono al Cavaliere cristiano meravigliose possibilità d’azione che un tempo erano insolite. Oggi, infatti, il concetto di “povertà”, di “bisogno”, di “oppressione” non riguarda più soltanto la sfera materiale e i bisogni materiali ma anche ed innanzitutto la dimensione e le esigenze dello spirito. Mai come oggi la militia deve essere dedicata a combattere alla radice l’errore e le tragiche conseguenze prodotte dall’errore. Il combattimento oggi si fa essenzialmente spirituale e il Cavaliere deve dedicare la sua azione a quanti, vittime dell’ignoranza, sono incapaci di spiegarsi il perché della sofferenza, del male, della solitudine, della morte. Costoro sono stati traditi dal sistema, dalle promesse di un progresso che non tiene conto delle esigenze dell’uomo e della natura, che non sa rispondere a quelle eterne domande se non eludendole, o dando risposte insoddisfacenti ai grandi quesiti che accomunano tutti gli esseri umani indipendentemente dalla latitudine geografica e dalla cultura la cui risoluzione era stata fornita dalla religione.
La protezione dei deboli, inoltre, oggi coincide anche con la difesa dell’ambiente e delle specie indifese, minacciate da un progresso cieco ed egoista. L’attuale sistema di produzione e consumo si è trasformato in un mostro spietato che per vivere deve distruggere incessantemente equilibri materiali e spirituali, fagocitando risorse naturali e coscienze, distruggendo ogni salutare diversità culturale e finendo, per ultimo, dopo aver inflitto ad ogni essere senziente incalcolabili sofferenze, per divorare sé stesso.
Oggi, in questa drammatica situazione, forse per la prima volta in modo così netto ed urgente, la Cavalleria coincide con la Conoscenza e il suo destino con quello dell’identità dell’Europa cristiana e della cristianità intera. Oggi, forse, ancor più che ai tempi di San Bernardo la Cavalleria terrena, libera da qualsiasi compromesso col potere terreno, libera dagli orpelli dei blasoni e dei titoli, libera dalla servitù delle corti, restituita alla sua nuda semplicità spirituale di testimonianza militante, ha i mezzi e l’occasione propizia per trasformarsi in Cavalleria Celeste»29.


Note

Una breve meditazione attorno all’archetipo cavalleresco non può che partire dalla riscoperta di uno dei migliori saggi scritti in argomento negli ultimi cento anni: F. Cardini, Alle radici della Cavalleria medievale, Firenze 1981, part. pagg. 3 e segg.; dello stesso Autore vedasi inoltre Guerre di primavera. Studi sulla Cavalleria e la tradizione cavalleresca, Firenze 1992, pagg. 13 e segg.
Attorno alla contemporanea diffusione del fascino per la Cavalleria e gli Ordini che storicamente ne hanno incarnato le espressioni, vedi A. Saentz, La Cavalleria. La forza delle armi al servizio della Verità inerme, trad. it., Rimini 2000.
Lo studio degli pseudo-ordini cavallereschi oramai esige una bibliografia a sè stante. Per un primo approccio al tema vedi Aa.Vv., “Gli Ordini Cavallereschi”, numero monografico de Religioni e Sette nel Mondo, n° 25, Bologna 2003-2004, e la ricca bibliografia ivi inclusa.
Il panorama delle aggregazioni settarie e neo-spiritualiste che prendono come proprio bersaglio la Cavalleria è pressoché infinito: sul tema vedi introduttivamente Aa.Vv., “Gli Ordini Cavallereschi”, cit., part. pagg. 102 e segg.
Il riferimento è al noto saggio del Thibon Ritorno al reale, trad. it., Milano 2001.
A. Saentz, La Cavalleria. La forza delle armi al servizio della Verità inerme, cit., pag. 5.
Il tema del rapporto fra l’esercizio delle armi e il Sacro è veramente sterminato: per limitarsi al contesto europeo, si parta da: M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, tra. It., Torino 1976 e Idem, Il Sacro e il profano, trad. it., Torino 1973; G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, trad. it., Rimini 2003 ed Idem, Ventura e sventura del guerriero. Aspetti mitici della funzione guerriera presso gli Indoeuropei, trad. it. Torino 1974; Autori Vari, Guerra, num. monografico di Avallon, Rimini 1995; per quanto concerne il tempo del “lungo medioevo”, accanto al già citato saggiodi F. Cardini Alle radici della Cavalleria medievale, vedasi G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri, contadini, trad. it., Roma-Bari 1980; D. Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo e nell’islam, Roma 2003.
S. Bernardo di Chiaravalle, De Laude Novae Militiae, trad. it. a c. di M. Polia, Rimini 2003.
Raimondo Lullo, Il Libro dell’Ordine della Cavalleria, trad. it. a c. di G. Allegra, Carmagnola 1983.
Attorno alla diffusione ed all’interpretazione della letteratura graalico-arturiana come specchio della visione del mondo cavalleresca, vedi M.Polia, Il Mistero Imperiale del Graal, Rimini 1996, e A. Morganti, Il Mistero del Mago Merlino, Rimini 1997.
M. Polia, “Profilo etico e religioso della Cavalleria cristiana e del Miles Christi”, in Religioni e sette nel mondo n°25/2004, pagg. 11-12.
Sulla persistenza dell’immagine tripartita della società fino agli albori della modernità vedi O. Niccoli, I Sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un’immagine della società, Torino 1979.
M. Polia, “Profilo etico e religioso...”, cit.
Idem, pag. 13.
Il progetto integrale della ristampa dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini prevede la ristampa in edizione anastatica commentata dei sei volumi costituenti il corpus dei testi liturgici licenziati dal Concilio di Trento dopo il 1568. Per il presente lavoro si è concentrata l’attenzione unicamente sulla riedizione del Pontificale Romanum, edita nel 1997.
Per una comparazione fra la struttura contenutistica delle due edizioni del Pontificale Romanum vedi l’Introduzione alla riedizione del Pontificale tridentino, cit., pagg. XVII-XXI.
Mons. R. Farina, Presentazione alla riedizione del Pontificale tridentino, cit., pag. V.
Sull’evoluzione dei Libri liturgici cattolici in generale, e del Pontificale Romanum in particolare, vedi M. Sodi-A.M. Triacca, Introduzione alla riedizione del Pontificale tridentino, cit., pagg. XII-XIII, e la ricca Bibliografia ivi riportata.
Ne sia esempio il caso dei “Cavalieri professi” appartenenti all’Ordine di Malta, ma anche quello certamente meno celebre, ma forse altrettanto significativo, di numerosi cattolici investiti Cavalieri secondo il Rituale “tridentino” negli ultimi trent’anni da parte di svariati Vescovi cattolici, sia Ordinari militari che Vescovi diocesani.
Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, Roma 2005, pag. 94. I riferimenti al testo completo del Catechismo della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1667-1672; 1677-1678. Abbiamo riportato questa forma sintetica per evidente praticità.
M. Polia, cit., pagg. 13-14.
M. Sodi-A.M. Triacca (a c.), Pontificale Romanum – Editio Princeps 1595-1596, rist.anast. Roma 1997, pag. 278 dell’edizione originale.
Codex Juris Canonicis, pp. 237.
Codex Juris Canonicis, pp. 239.
Codex Juris Canonicis, pp. 241.
Sul tema vedi utilmente la sintesi di p. P. Ferrari da Cassano S.J., “I Movimenti ecclesiali nel diritto della Chiesa”, in La Civiltà Cattolica, n° IV/1997, pagg. 330 e segg.
M. Polia, art. cit., pagg. 23-24; vedi anche l’eccellente saggio di C. Alzati, “Prassi sacramentale e Militia Christi”, in Aevum n°2/1993, pagg. 313 e segg.
M. Polia, art. cit., pagg. 15-16.
M. Polia, art. cit., pagg. 17-18.



Bibliografia

Autori Vari, Guerra, numero monografico di Avallon, Rimini 1995.
S. Bernardo di Chiaravalle, De Laude Novae Militiae, trad. it. a c. di M. Polia, Rimini 2003.
F. Cardini, Alle radici della Cavalleria medievale, Firenze 1981.
F. Cardini, Guerre di primavera. Studi sulla Cavalleria e la tradizione cavalleresca, Firenze 1992.
Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, Roma 2005.
G. Duby, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri, contadini, trad. it., Roma-Bari 1980.
O. Niccoli, I Sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un’immagine della società, Torino 1979.
M. Polia, “Profilo etico e religioso della Cavalleria cristiana e del Miles Christi”, in Religioni e sette nel mondo n°25/2004.
A. Saentz, La Cavalleria. La forza delle armi al servizio della Verità inerme, trad. it., Rimini 2000.
M. Sodi – A.M. Triacca (a c.), Pontificale Romanum – Editio Princeps 1595-1596, rist.anast. Roma 1997.
D. Tessore, La mistica della guerra. Spiritualità delle armi nel cristianesimo e nell’islam, Roma 2003.


Breve autopresentazione:

Adolfo Morganti, nato nel 1959, laureato in Psicologia, è Docente di Pedagogia della Religione e Socio fondatore del Centro Studi Nuovo Medioevo della Repubblica di San Marino, presieduto dal prof. Franco Cardini, nonché fondatore e Presidente di Paneuropa San Marino.
Dal 2001 è Fondatore e Presidente della Fondazione Istituto di Studi Storici Europei (I.S.S.E.) di Roma; nel dicembre 2002 viene nominato Membro dell’ “Osservatorio per il monitoraggio comparativo dell’attuazione delle direttive comunitarie in Italia” istituito dal Ministero per le Politiche Comunitarie della Repubblica Italiana, e della Commissione Cultura presso il medesimo Ministero.
E’ incaricato della Docenza di “Psicologia Dinamica” presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma, e nel 2004 è insignito dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio con la qualifica di Cavaliere di Merito con placca. Dal luglio 2005, infine, è Fondatore e Presidente dell’Istituto di Studi Storico-Politici Sammarinese (I.S.S.Po.S.).
Collabora a numerosi periodici europei.

Natura e scopi dell'istituzione cavalleresca




La Cavalleria, quale casta privilegiata di combattenti a cavallo, è un'Istituzione assai antica. L'utilizzazione del cavallo a scopi militari ebbe inizio circa 3000 anni prima dell'Era Volgare ad opera delle popolazioni dell'Asia centrale; l'equitazione ebbe però uno sviluppo molto lento. Ittiti, Hurriti, Cassiti, Egizi, Numidi, Sciti e Parti furono i primi popoli a possedere una vera cavalleria costituita da guerrieri cavallo o montati su carri da guerra trainati prima da onagri, poi da cavalli. Dal IX° secolo a.C., figure di cavalieri compaiono su bassorilievi Assiri. In Grecia fa cavalleria nacque nel VII0 secolo a.C- e, nel V° secolo, Atene possedeva 1000 cavalieri comandati da due Ipparchi. Dal V° secolo a.C-, Filippo il Macedone affiancò alla falange la cavalleria (un cavaliere ogni sei fanti), che fu trasformata poi da Alessandro Magno in efficiente e decisivo strumento di guerra. Roma non ebbe numerosa cavalleria (300 cavalieri su 4200 uomini di una legione) fino al II0 secolo d.C., allorché quest'ultima assunse una notevole consistenza numerica (alla fine del III0 secolo d.C.-, sotto Diocleziano, i cavalieri erano 160.000), ma fu irrazionalmente impiegata, disseminata com'era a guardia delle frontiere; per questo, sebbene in seguito fosse stata ulteriormente incrementata nel numero, non seppe far fronte alle invasioni barbariche Momento importante per la Cavalleria fu il contatto con le popolazioni della steppa, soprattutto Unni e Mongoli- Per questi popoli il cavallo era un elemento indispensabile alla sopravvivenza ancor prima che al combattimento- Con essa veniva introdotto l'uso delle staffe, che permettevano dì mantenere l'equilibrio e quindi facilitavano enormemente l'uso dell'arco e della spada. Gli Unni non hanno rivali nella razzia e nel combattimento a cavallo, ma non sono cavalieri: l'Orda vive in totale promiscuità con la bestia, gli uomini mangiano, dormono, vivono in sella, tanto che un cronista dell'epoca li scambiò per centauri.. Per Bisanzio l'adozione di nuove tecniche determina una vera e propria rivoluziona nell'arte militare. Gli Arabi ignorarono l'equitazione sino al VI0 secolo d.C., ma, in seguito, conferirono alla cavalleria un ruolo primario nei loro schieramenti divenendo ottimi cavalieri. Con concezione totalmente diversa, in Oriente, verso la fine de! XII° secolo, Gengis Khan creò, nelle pianure della Mongolia, una cavalleria forte di 700,000 uomini. Questi, esperti nel cavalcare, guerrieri per natura, tenuti uniti da una disciplina di ferro, seguiti da numerosi carri e da grandi mandrie, conquistarono il nord e l'est dell'Asia e, nel 1235, invasero l'Europa con una forza di 150.000 cavalieri. Cario Magno, obbligato ad agire senza soste da un'estremità all'altra del suo vasto Impero, diede notevole importanza alla cavalleria che, con ['impiego dei ferri agii zoccoli, delle staffe e del morso di briglia, potè essere usata in qualsiasi circostanza e, dal IX° secolo, divenne l'arma preminente del combattimento. Franchi e Longobardi in questo modo cominciarono quindi a proporre sulla scena della Storia l'immagine - non l'idea, solo l'immagine - del Cavaliere, Si fa avanti con essi un indefinibile guerriero che, oltre ad essere una temibile unità da guerra, è tale in ragione di certe regole inviolabili, dalle quali non può derogare. La sua intera esistenza ne è condizionata. Questo nuovo strano soldato, che affiora da brume protostorìche, è rozzo e violento, idealmente confuso da un paganesimo ormai logoro, eppure consapevole dell'uso cui è destinata la propria spada in quanto vincolato da un rapporto di totale fedeltà verso il signore al quale deve l'investitura delle armi; al punto che si diceva non esservi nulla di più spregevole che sopravvivere al proprio capo caduto in battaglia. Il valore è stimato in ogni età e paese, e quanto più rudi sono il periodo ed il luogo, tanto più vengono rispettati l'audacia dell'impresa ed il successo in battaglia. Ma mescolare il valore militare con le più forti passioni che muovono la mente umana, come i sentimenti di devozione e quelli d'amore, questo fu peculiare dell'Istituzione della Cavalleria. La lealtà al sovrano era certo anch'essa un dovere cui questi guerrieri erano tenuti; ma benché si trattasse di una molla potente, da cui essi appaiono spesso fortemente spinti, tuttavia non fu una delle componenti del principio cavalleresco allo stesso titolo delle due cause precedenti. L'amore per la libertà personale, e l'obbligo di sostenerla e difenderla nell'altrui come nella propria persona, costituiva un dovere al quale erano particolarmente tenuti coloro che raggiungevano l'onore della Cavalleria. Generosità, valore, cortesia e reputazione cristallina erano ingredienti non meno necessari per il carattere di un perfetto cavaliere. La religione cristiana venne utilizzata dai suoi ministri come ulteriore sprone per l'indole del valoroso; vittoria e gloria sulla terra, ed una felice eternità dopo la morte, venivano promesse a quei campioni che si fossero distinti in battaglia contro gli infedeli. L'ammissione del giovane nobile alla pratica delle armi non fu più una cerimonia laica, ma divenne un rito religioso, santificato dalle formalità di quella Chiesa che in futuro avrebbe dovuto difendere. L'aspirante cavaliere iniziava il suo apprendistato in giovane età, tra i sette ed i dieci anni. I genitori lo mandavano nel castello di un'altra nobile famiglia ed il ragazzo iniziava a sbrigare piccole incombenze per i padroni di casa, come portare i'acqua e la legna, fare commissioni per la castellana e le sue dame, rimanere accanto al suo signore ed ai suoi ospiti in occasione dei banchetti, per rifornire la tavola di acqua fresca o vino o porgere panni per pulirsi le mani. Se è bello e di carattere amabile, la padrona di casa e le sue ancelle lo prendono maternamente sotto la loro protezione e gli insegnano ad usare uno strumento come la viola, il flauto o il liuto o a giocare a scacchi, così da utilizzarlo come piacevole compagnia nelle lunghe giornate di noia, quando il feudatario ed i suoi uomini sono assenti per i loro impegni, come la caccia o la guerra. L'istruzione del futuro cavaliere consiste in un po' di latino e qualche nozione di religione e cultura generale, sotto la guida de! cappellano, mentre ciambellani e balivi gli spiegano, per sommi capi, come si amministra un feudo. Ma, la sua vera educazione, si svolge all'aperto, in mezzo ai cavalli. Sotto la guida di un garzone di scuderia esperto, impara a curare e strigliare i focosi destrieri da combattimento, lustrare gli scudi e gli elmi, affilare le spade, togliere la ruggine alle cotte di maglia di ferro. Da donzello e valletto, come viene chiamato all'inizio dell'apprendistato, il ragazzo viene nominato, con il tempo, scudiere, e questa carica gli da il diritto di accompagnare il suo signore nei tornei e seguirlo nelle sue imprese. Per irrobustire il corpo e la mente ed imparare ad essere coraggioso, continua ad allenarsi nella corsa, nella lotta a mani nude e nella scherma. In occasione dei tornei, grande divertimento dell'epoca, corre la quintana. vale a dire galoppa a briglia sciolta contro un fantoccio di legno montato su un perno girevole e, armato di bastone, cerca di colpirlo tra gli occhi. Se non ci riesce al primo tentativo, il bastone si abbatte con violenza sulla sua schiena. Anche questo non è che un "assaggio" dei tormenti che dovrà patire in futuro, combattendo contro i nemici. Verso i vent'anni, a volte anche prima, arriva per il giovane scudiere il sospirato momento dell'investitura a cavaliere, che gli viene conferita dal signore del castello dove si è svolto il suo apprendistato. La cerimonia avviene, di solito, in occasione delle grandi solennità religiose, come Pasqua o Pentecoste. Dopo una notte trascorsa in preghiera nella cappella della nobile dimora, l'aspirante cavaliere indossa un abito di velluto ricamato, calza speroni dorati e "cinge la spada" inginocchiato ai piedi del suo signore, pronunciando i voti solenni del cavalierato. Si impegna cioè ad essere coraggioso e generoso, a rifuggire il tradimento, a proteggere le vedove e gli orfani, a servire lealmente il suo signore e la Chiesa. Il momento culminante del rituale è la "collata", consistente in uno schiaffetto che il feudatario gli da con la mano aperta o con il piatto della spada e che rappresenta, simbolicamente, l'ultima offesa che il giovane deve lasciare invendicata. Il resto della giornata trascorre in festeggiamenti. A partire dall'investitura, il neo cavaliere ha diritto di possedere un destriere ed armi personali, e può aspirare ad avere un feudo suo (il che spesso è ottenuto con un vantaggioso matrimonio). Alcuni di loro, nei paesi a feudo franco, dove il dominio feudale passava per intero al primogenito, erano cavalieri "senza terra", cadetti cioè che si erano trovati a disporre di una ricchezza appena sufficiente ad equipaggiarsi ed a militare a cavallo. Se la fortuna non sorrideva loro, potevano rimanere al servizio del signore, ricompensandolo con valorose imprese per tutto il denaro e le fatiche spese per averli fatti cavalieri "senza macchia e senza paura". Il cavaliere, la cui professione era la guerra, dopo essere stato solennemente arruolato al servizio del Vangelo della pace, considerava infedeli ed eretici di ogni sorta come nemici che, in qualità di soldato di Dio, era tenuto ad attaccare ed uccidere ovunque li potesse incontrare, senza richiedere od attendere altra causa di contesa che la differenza di fede religiosa. I doveri della moralità gli erano stati, invero, formalmente imposti dal giuramento dell'ordine, al pari di quello di difendere la Chiesa ed estirpare l'eresia e la miscredenza. Ma, in tutti i tempi, gli uomini hanno usato regolare i debiti che essi contraggono con la propria coscienza quando infrangono il codice morale della religione; nel Medioevo la Chiesa riconosceva ad un'impresa compiuta contro gli infedeli un merito che poteva nascondere la colpa dei più atroci crimini. L'ovvio pericolo dell'insegnare ai mèmbri di un corpo militare a considerarsi dei missionari di una religione, tenuti a diffonderne le dottrine, è che essi useranno certamente al suo servizio le loro spade e le loro lance. Si riterrà che il fine santifichi i mezzi, ed il massacro di migliaia di infedeli verrà ritenuto azione rilevante e perfino positiva, solo che produca la conversione dei superstiti o ne popoli le terre con uomini che professano una fede più pura. A questo proposito, si ricordi il termine "malicidio", coniato da San Bernardo, per definire l'uccisione di infedeli, fossero anche donne e bambini, e la risposta di un vescovo che, alla domanda di un soldato su come avrebbero potuto distinguere gli eretici dai buoni cristiani poco prima dell'assalto ad un villaggio dove vi erano dei catari, rispose: "voi uccideteli tutti, Dio, poi, riconoscerà i suoi". Ma benché, come accidentalmente avviene nelle istituzioni umane, la mescolanza di devozione e carattere militare degenerasse in pratica in brutale intolleranza e superstizione, nulla poteva essere più bello e degno di lode della teoria sulla quale era basata. Che il soldato sguainasse la spada in difesa del suo paese e delle sue libertà, o dell'innocenza oppressa di damigelle, vedove ed orfani, o a sostegno dei diritti religiosi per i quali i detentori non potevano, per professione, combattere di persona; che unisse a tutti i sentimenti che questi uffici ispiravano un profondo senso di devozione che lo innalzava al di sopra dei vantaggi ed anche della fama che gli poteva derivare dalla vittoria, trasformando la sconfitta stessa in lezione di castigo ed umiliazione divina; che il cavaliere, sul cui valore dovevano contare i suoi compatrioti in caso di pericolo, desse loro l'esempio osservando i doveri ed i precetti della religione, tutte queste circostanze erano tanto adatte ad ingentilire ed a dare dignità e grazia alla professione delle armi, che non si può fare a meno di deplorarne la tendenza a degenerare in una feroce propensione alla bigotteria, alla persecuzione ed all'intolleranza. La seconda componente dello spirito cavalleresco, inferiore come forza soltanto allo zelo religioso di chi la professava, e spesso predominante su di esso, era una devozione per il sesso femminile - e particolarmente per colei che ogni cavaliere aveva scelto come oggetto principale della propria passione - di natura tanto stravagante ed illimitata da rasentare l'idolatria. La difesa del sesso femminile, la considerazione dovuta all'onore delle donne, la sottomissione con cui si obbediva ai loro comandi, il timore reverenziale e la cortesia che proibivano, in loro presenza, ogni parola o azione indecorosa, erano a tal punto parte dell'Istituzione della Cavalleria da costituirne l'essenza stessa. Per il cavaliere era essenziale scegliere una dama per fame la stella polare dei suoi pensieri, la signora dei suoi affetti e la guida direttrice delle sue azioni. Era per servire lei che egli doveva essere: leale, fedele, segreto e riverente. Il mondo inferiore del cavaliere era, in misura determinante, riflesso del rapporto che egli era riuscito ad instaurare con la sua dama. Tale rapporto, sovente reale ma assai spesso anche solo virtuale perché basato su sogni o desideri, fantasie sviluppate circa una dama facente parte dell'ambiente del diretto superiore del giovane stesso che arrivava alla propria realizzazione attraverso il legame per una idolatrata figura femminile, tale rapporto era il magnete che generava le energie necessarie a superare le più crude avversità, trasformando gradualmente il precario ferro dell'anima in acciaio ben temprato. In un testo del XII0 secolo, strutturato come una "disputatio" tra cuore e corpo, il cuore palesa al corpo la celebre "allegoria delle erbe" nella quale è fatta menzione delle "erbe" (se. virtù) necessarie a preparare la pozione salvifica che procura al cavaliere salvezza in cielo e felicità in terra. La fonte d'ispirazione dell'allegoria è da ricercarsi soprattutto nel passo del giardino del Cantico dei cantici ed in quello della Armatura dei (Efes. 6, 11-17). Così si legge nell' "Allegoria delle erbe": Corpo, ora devi prestarmi attenzione: nessuno ne avrà maggior vantaggio di tè. Se mai vuoi procacciarti salvezza o anche un po' d'amore, impara dunque una magica arte che, in verità, è buona. Se saprai farti padrone di ciò che a tale riguardo è necessario, riuscirai: la portai dalla Francia. Attento a tenere il segreto, ma non mi darà pena se lo divulgherai. In tal guisa stanno le cose, che chi vuoi mettersi all'opera nel modo giusto deve possedere tré erbe, che lo rendono amabile e caro. Ma non devi aspettarti di trovarle nel giardino di nessuno, ne alcuno le trova da comprare. A meno che uno non abbia la fortuna di ottenerle con retto intendimento da Colui che le ha in Suo potere; altrimenti non c'è consiglio che giovi, egli deve sempre star lontano da loro. Dio è il giardiniere, Lui solo ne ha cura. Incontaminata è la sua camera di provviste: dalla quale da a chi vuole, e quegli ne ha sempre gran beneficio. Le erbe ti sono sconosciute; così sono chiamate: liberalità, finezza d'educazione, umiltà. Nessun'erba è altrettanto buona: il fortunato che può mescolare le tré erbe come si conviene, compie il vero incantesimo. Ma occorrono anche altre erbe prima di compier bene l'opera, fedeltà e costanza: chi non avesse anche queste dovrebbe abbandonare l'arte; e inoltre devi mescolarne ancora due: castità e verecondia; oltre a queste v'è il nome di un'erba: fidato valore; così l'incantesimo è davvero pronto. A chi dunque riesce di aver tutte le erbe, quegli le deve mettere in un recipiente, che è un cuore privo di odio: là dentro egli le deve portare; e voglio dirti in verità che pronta è per lui la beatitudine finché egli le porta con sé. Se potessi disporre delle erbe delle quali, corpo, ti ho parlato prima, guarda, il recipiente tè lo dò io, che lo riconosco in me. Nei loro confronti sei molto manchevole. Ma se puoi averne sempre di più, corpo, fallo, poiché tè lo consiglio, e non fartelo pesare: che se sempre ti dovrà andar bene con le donne dovrai avere questo incantesimo. Ed è anche per certo bene che chi lo fa sia senza vizi e senza gravi peccati. Beato chi ha notizia di loro! Nel mondo è una fortuna, e non dispiace a Dio; da entrambe le parti è un guadagno; Dio e il mondo lo amano: chi possiede quest'arte magica è nel mondo un uomo felice. Negli ottonari a rima baciata appena letti si condensa il codice di comportamento del cavaliere medioevale, indicando i principi etici ai quali conformare il proprio agire. Studiosi assai perspicaci e molto profondi hanno avanzato l'interessante ipotesi che vede nel cavaliere l'Io individuale, nella sua dama il Sé, e nel cavallo l'energia vitale necessaria al cavaliere per il suo peregrinare. Cavalieri particolarmente avventurosi cercavano di distinguersi in fatti d'arme singolari e non comuni in onore della toro dama. Affrontare forze esageratamente impari, combattere in mezzo a cavalieri armati facendo a meno di qualche parte essenziale dell'armatura, compiere qualche impresa di audace valore di fronte ad amici e nemici, erano i servigi coi quali i cavalieri si sforzavano di segnalarsi, o che le loro signore imponevano come prova della saldezza del vincolo. Dopo che all'amor di Dio e della propria dama, il prode cavaliere doveva essere guidato da quello per la fama e per la gloria. Il suo voto lo necessitava ad affrontare avventure rischiose e pericolose, ed a non astenersi mai dalla ricerca intrapresa, per quanto inaspettatamente impari potesse rivelarsi l'opposizione incontrata. Il genio della Cavalleria non richiedeva invero ai suoi seguaci il sobrio e regolato esercizio del valore, ma il fanatismo. Le imprese con cui un avventuroso cavaliere sceglieva di distinguersi erano le più stravaganti e difficili a concepirsi, e le più inutili da compiersi. V'erano anche solenni occasioni in cui queste dimostrazioni di entusiasmo cavalleresco erano, in special modo, attese e richieste. Basti ricordare i tornei, affrontati solo per divertimento e per sete d'onore (che per lungo tempo furono combattuti con armi normali e non "cortesi" e quindi furono causa di morti e feriti), le singolar tenzoni ed i banchetti solenni in cui i voti di Cavalleria venivano usualmente formulati e proclamati. L'ideale della Cavalleria proponeva perfezione cristiana nella vita guerriera e, soprattutto, l'obbligo di combattere per la fede, il che diede ben presto origine alla fondazione degli Ordini Cavallereschi. I privilegi di cui essi godevano e, al tempo stesso, l'esaurirsi della loro funzione di difensori della cristianità in Oriente, in seguito al consolidarsi della potenza turca, portarono gradualmente ad una decadenza dei valori ideali di cui la Cavalleria era depositarla. Quando nei secoli XIV° e XV°, con l'avvento degli Stati regionali e nazionali, le condizioni che avevano determinato il sorgere della Cavalleria mutarono profondamente, il titolo di cavaliere assunse un significato puramente onorifico o nobiliare, e l'Istituzione si svuotò completamente del valore e dello spirito originari. In contrasto con la borghesia mercantile, che veniva sempre più affermando i suoi diritti, quella dei cavalieri tendeva ormai ad essere una casta sempre più chiusa, incapace di assolvere le funzioni per cui era nata la Cavalleria. Non esiste, come è noto, una Storia oggettiva. Lo storico, nonostante le buone intenzioni, quando sono tali, resta condizionato dalla propria formazione culturale, dall'epoca in cui vive, dall'influenza delle dottrine dominanti. I Cavalieri sono, nella concezione popolare, gli uomini che rappresentano l'eroismo al servizio della giustizia. E' cavaliere chi assume le difese del debole contro il forte. Ciò rende prestigiosa la figura del cavaliere e la pone al vertice della gerarchia dei tipi umani. La leggenda e la storia, il poema ed il romanzo si sono associati per costruire un piedistallo da cui essa domini, nell'irradiazione di una gloria misteriosa. Nel corso dei secoli, l'immaginazione si è lasciata incantare dai racconti delle loro imprese favolose, delle toro eroiche avventure. Le donne, che tengono nelle loro mani i serti della vittoria, hanno riservato a questi eroi romanzeschi, nel segreto del cuore, una palpitante emozione. Consideriamo che il cavaliere, da noi abitualmente definito come una creatura del Medioevo, se allarghiamo i nostri orizzonti, è sempre esistito, in tutte le nazioni nobili. Venendo, gerarchicamente, dopo il rè e la regina, egli è la guardia a cavallo che manterrà la pace nel governo regale: è il sale della terra. Deriva il proprio nome dal cavallo; è a tal punto legato a questo animale, che, se per disgrazia decade, viene proclamato indegno di montarlo; in tal caso, nel corso di una solenne cerimonia di degradazione, i supporti degli speroni d'oro gli vengono segati vicino al calcagno. Il cavaliere è in così stretto rapporto con la sua cavalcatura, che condivide con essa gloria e pericoli. E il cavallo? E' solo "la più nobile conquista che l'uomo abbia mai fatto" Victor Hugo disse che "gli animali non sono altro che le figure dei nostri vizi e delle nostre virtù, che errano davanti ai nostri occhi". Il simbolismo attribuisce al cavallo il potere della mediazione, tra la terra ed il desiderio di ascendere. Il cavaliere , pur essendo molto legato al suo cavallo, è profondamente diverso dal centauro che è tutt'uno con la propria parte animale. Nello Zohar è scritto che il mondo è stabile solo in virtù del segreto. Esso diventerebbe instabile se il segreto venisse divulgato; pensiamo a quanti grandi uomini furono colpiti, nel corso dei secoli, a causa della loro imprudente divulgazione (Socrate, Giordano Bruno, ecc). Il segreto non sarà mai divulgato; non lo può essere ma, dappertutto, è rivelato. I costruttori di Cattedrali hanno iscritto l'eco della Parola perduta nel silenzio secolare della pietra, affinchè i predestinati la ascoltino. Soltanto i Maestri possono farlo. La società Medioevale, come quella Antica, è costruita sulla conoscenza iniziatica: il segreto palpita entro le forme simboliche che vengono offerte agli sguardi dall'arte e dalla leggenda, dalla storia e dalle istituzioni sociali. Quanto al segreto della Cavalleria, cerchiamolo nella Cavalleria leggendaria, poiché è questa la prefigurazione di quella reale, siccome si svolge su un piano ideale e non è quindi macchiata dalle debolezze inerenti alle realizzazioni umane. Il suo sangue è più generoso, perché è vivificato da una respirazione più vicina all'archetipo. Non si dice, d'altronde, che la Gerusalemme celeste deve discendere dal cielo alla terra? La Cavalleria leggendaria si muove intorno al ciclo della Tavola Rotonda. In esso si cristallizza la tradizione celtica. La civiltà druidica, così venerata nell'antichità, ha conservato il suo influsso anche dopo aver adottato la formula cristiana. Il mago Merlino, figlio di una vergine e di un dèmone, ha formulato le regole di quest'Ordine che riunisce, intorno ad una tavola rotonda costruita secondo il suo progetto, cinquanta cavalieri (sette al quadrato più l'Unità) che giurano di consacrare le loro forze ad un'impresa misteriosa: la cerca del Santo Graal. Cinquanta? Quarantanove, per essere esatti. Intorno alla Tavola Rotonda c'erano sì cinquanta seggi, ma uno di essi, quello alla destra del rè Artù, era vuoto. Esso era riservato al cavaliere perfetto che avrebbe conquistato il sublime vaso e l'avrebbe, trionfalmente, recato sulla Tavola. Questi fu Galaad. Questa Cavalleria si ricollega, da una parte, alla Cavalleria Druidica e, dall'altra, ad una Cavalleria fiorita nei primi anni del Cristianesimo e che ha, per Maestro, Giuseppe d'Arimatea. Tutte le mitologie, tutte le tradizioni religiose hanno il loro Vaso Sacro. Tutte parlano di una coppa da cui i predestinati, e solo loro, attingono la bevanda dell'iniziazione. Il Graal guarisce le ferite mortali e risuscita i morti, ma il risuscitato torna in vita muto, e per sempre. I segreti del vaso miracoloso, infatti, non devono essere profanati dalla divulgazione. Gli Eletti, ammessi ai suoi misteri, sono votati al silenzio. Il Graal, del resto, non è esattamente un oggetto su cui mettere le mani ma, piuttosto, uno stato di coscienza, un'illuminazione da raggiungere, comprendere e completare. Un famoso poeta ha detto che: "La scienza del passato non è nulla, se davanti a noi non evoca tutto quanto l'avvenire". In virtù della sua leggenda e del suo esempio, la Cavalleria non ha cessato di partecipare alla direzione del mondo, un mondo che può rimanere stabile solo in virtù del segreto

AURO CAPONE

Presidente Associazione per lo Studio degli Ordini Cavllereschi A.S.O.C.