lunedì 6 agosto 2007

Natura e scopi dell'istituzione cavalleresca




La Cavalleria, quale casta privilegiata di combattenti a cavallo, è un'Istituzione assai antica. L'utilizzazione del cavallo a scopi militari ebbe inizio circa 3000 anni prima dell'Era Volgare ad opera delle popolazioni dell'Asia centrale; l'equitazione ebbe però uno sviluppo molto lento. Ittiti, Hurriti, Cassiti, Egizi, Numidi, Sciti e Parti furono i primi popoli a possedere una vera cavalleria costituita da guerrieri cavallo o montati su carri da guerra trainati prima da onagri, poi da cavalli. Dal IX° secolo a.C., figure di cavalieri compaiono su bassorilievi Assiri. In Grecia fa cavalleria nacque nel VII0 secolo a.C- e, nel V° secolo, Atene possedeva 1000 cavalieri comandati da due Ipparchi. Dal V° secolo a.C-, Filippo il Macedone affiancò alla falange la cavalleria (un cavaliere ogni sei fanti), che fu trasformata poi da Alessandro Magno in efficiente e decisivo strumento di guerra. Roma non ebbe numerosa cavalleria (300 cavalieri su 4200 uomini di una legione) fino al II0 secolo d.C., allorché quest'ultima assunse una notevole consistenza numerica (alla fine del III0 secolo d.C.-, sotto Diocleziano, i cavalieri erano 160.000), ma fu irrazionalmente impiegata, disseminata com'era a guardia delle frontiere; per questo, sebbene in seguito fosse stata ulteriormente incrementata nel numero, non seppe far fronte alle invasioni barbariche Momento importante per la Cavalleria fu il contatto con le popolazioni della steppa, soprattutto Unni e Mongoli- Per questi popoli il cavallo era un elemento indispensabile alla sopravvivenza ancor prima che al combattimento- Con essa veniva introdotto l'uso delle staffe, che permettevano dì mantenere l'equilibrio e quindi facilitavano enormemente l'uso dell'arco e della spada. Gli Unni non hanno rivali nella razzia e nel combattimento a cavallo, ma non sono cavalieri: l'Orda vive in totale promiscuità con la bestia, gli uomini mangiano, dormono, vivono in sella, tanto che un cronista dell'epoca li scambiò per centauri.. Per Bisanzio l'adozione di nuove tecniche determina una vera e propria rivoluziona nell'arte militare. Gli Arabi ignorarono l'equitazione sino al VI0 secolo d.C., ma, in seguito, conferirono alla cavalleria un ruolo primario nei loro schieramenti divenendo ottimi cavalieri. Con concezione totalmente diversa, in Oriente, verso la fine de! XII° secolo, Gengis Khan creò, nelle pianure della Mongolia, una cavalleria forte di 700,000 uomini. Questi, esperti nel cavalcare, guerrieri per natura, tenuti uniti da una disciplina di ferro, seguiti da numerosi carri e da grandi mandrie, conquistarono il nord e l'est dell'Asia e, nel 1235, invasero l'Europa con una forza di 150.000 cavalieri. Cario Magno, obbligato ad agire senza soste da un'estremità all'altra del suo vasto Impero, diede notevole importanza alla cavalleria che, con ['impiego dei ferri agii zoccoli, delle staffe e del morso di briglia, potè essere usata in qualsiasi circostanza e, dal IX° secolo, divenne l'arma preminente del combattimento. Franchi e Longobardi in questo modo cominciarono quindi a proporre sulla scena della Storia l'immagine - non l'idea, solo l'immagine - del Cavaliere, Si fa avanti con essi un indefinibile guerriero che, oltre ad essere una temibile unità da guerra, è tale in ragione di certe regole inviolabili, dalle quali non può derogare. La sua intera esistenza ne è condizionata. Questo nuovo strano soldato, che affiora da brume protostorìche, è rozzo e violento, idealmente confuso da un paganesimo ormai logoro, eppure consapevole dell'uso cui è destinata la propria spada in quanto vincolato da un rapporto di totale fedeltà verso il signore al quale deve l'investitura delle armi; al punto che si diceva non esservi nulla di più spregevole che sopravvivere al proprio capo caduto in battaglia. Il valore è stimato in ogni età e paese, e quanto più rudi sono il periodo ed il luogo, tanto più vengono rispettati l'audacia dell'impresa ed il successo in battaglia. Ma mescolare il valore militare con le più forti passioni che muovono la mente umana, come i sentimenti di devozione e quelli d'amore, questo fu peculiare dell'Istituzione della Cavalleria. La lealtà al sovrano era certo anch'essa un dovere cui questi guerrieri erano tenuti; ma benché si trattasse di una molla potente, da cui essi appaiono spesso fortemente spinti, tuttavia non fu una delle componenti del principio cavalleresco allo stesso titolo delle due cause precedenti. L'amore per la libertà personale, e l'obbligo di sostenerla e difenderla nell'altrui come nella propria persona, costituiva un dovere al quale erano particolarmente tenuti coloro che raggiungevano l'onore della Cavalleria. Generosità, valore, cortesia e reputazione cristallina erano ingredienti non meno necessari per il carattere di un perfetto cavaliere. La religione cristiana venne utilizzata dai suoi ministri come ulteriore sprone per l'indole del valoroso; vittoria e gloria sulla terra, ed una felice eternità dopo la morte, venivano promesse a quei campioni che si fossero distinti in battaglia contro gli infedeli. L'ammissione del giovane nobile alla pratica delle armi non fu più una cerimonia laica, ma divenne un rito religioso, santificato dalle formalità di quella Chiesa che in futuro avrebbe dovuto difendere. L'aspirante cavaliere iniziava il suo apprendistato in giovane età, tra i sette ed i dieci anni. I genitori lo mandavano nel castello di un'altra nobile famiglia ed il ragazzo iniziava a sbrigare piccole incombenze per i padroni di casa, come portare i'acqua e la legna, fare commissioni per la castellana e le sue dame, rimanere accanto al suo signore ed ai suoi ospiti in occasione dei banchetti, per rifornire la tavola di acqua fresca o vino o porgere panni per pulirsi le mani. Se è bello e di carattere amabile, la padrona di casa e le sue ancelle lo prendono maternamente sotto la loro protezione e gli insegnano ad usare uno strumento come la viola, il flauto o il liuto o a giocare a scacchi, così da utilizzarlo come piacevole compagnia nelle lunghe giornate di noia, quando il feudatario ed i suoi uomini sono assenti per i loro impegni, come la caccia o la guerra. L'istruzione del futuro cavaliere consiste in un po' di latino e qualche nozione di religione e cultura generale, sotto la guida de! cappellano, mentre ciambellani e balivi gli spiegano, per sommi capi, come si amministra un feudo. Ma, la sua vera educazione, si svolge all'aperto, in mezzo ai cavalli. Sotto la guida di un garzone di scuderia esperto, impara a curare e strigliare i focosi destrieri da combattimento, lustrare gli scudi e gli elmi, affilare le spade, togliere la ruggine alle cotte di maglia di ferro. Da donzello e valletto, come viene chiamato all'inizio dell'apprendistato, il ragazzo viene nominato, con il tempo, scudiere, e questa carica gli da il diritto di accompagnare il suo signore nei tornei e seguirlo nelle sue imprese. Per irrobustire il corpo e la mente ed imparare ad essere coraggioso, continua ad allenarsi nella corsa, nella lotta a mani nude e nella scherma. In occasione dei tornei, grande divertimento dell'epoca, corre la quintana. vale a dire galoppa a briglia sciolta contro un fantoccio di legno montato su un perno girevole e, armato di bastone, cerca di colpirlo tra gli occhi. Se non ci riesce al primo tentativo, il bastone si abbatte con violenza sulla sua schiena. Anche questo non è che un "assaggio" dei tormenti che dovrà patire in futuro, combattendo contro i nemici. Verso i vent'anni, a volte anche prima, arriva per il giovane scudiere il sospirato momento dell'investitura a cavaliere, che gli viene conferita dal signore del castello dove si è svolto il suo apprendistato. La cerimonia avviene, di solito, in occasione delle grandi solennità religiose, come Pasqua o Pentecoste. Dopo una notte trascorsa in preghiera nella cappella della nobile dimora, l'aspirante cavaliere indossa un abito di velluto ricamato, calza speroni dorati e "cinge la spada" inginocchiato ai piedi del suo signore, pronunciando i voti solenni del cavalierato. Si impegna cioè ad essere coraggioso e generoso, a rifuggire il tradimento, a proteggere le vedove e gli orfani, a servire lealmente il suo signore e la Chiesa. Il momento culminante del rituale è la "collata", consistente in uno schiaffetto che il feudatario gli da con la mano aperta o con il piatto della spada e che rappresenta, simbolicamente, l'ultima offesa che il giovane deve lasciare invendicata. Il resto della giornata trascorre in festeggiamenti. A partire dall'investitura, il neo cavaliere ha diritto di possedere un destriere ed armi personali, e può aspirare ad avere un feudo suo (il che spesso è ottenuto con un vantaggioso matrimonio). Alcuni di loro, nei paesi a feudo franco, dove il dominio feudale passava per intero al primogenito, erano cavalieri "senza terra", cadetti cioè che si erano trovati a disporre di una ricchezza appena sufficiente ad equipaggiarsi ed a militare a cavallo. Se la fortuna non sorrideva loro, potevano rimanere al servizio del signore, ricompensandolo con valorose imprese per tutto il denaro e le fatiche spese per averli fatti cavalieri "senza macchia e senza paura". Il cavaliere, la cui professione era la guerra, dopo essere stato solennemente arruolato al servizio del Vangelo della pace, considerava infedeli ed eretici di ogni sorta come nemici che, in qualità di soldato di Dio, era tenuto ad attaccare ed uccidere ovunque li potesse incontrare, senza richiedere od attendere altra causa di contesa che la differenza di fede religiosa. I doveri della moralità gli erano stati, invero, formalmente imposti dal giuramento dell'ordine, al pari di quello di difendere la Chiesa ed estirpare l'eresia e la miscredenza. Ma, in tutti i tempi, gli uomini hanno usato regolare i debiti che essi contraggono con la propria coscienza quando infrangono il codice morale della religione; nel Medioevo la Chiesa riconosceva ad un'impresa compiuta contro gli infedeli un merito che poteva nascondere la colpa dei più atroci crimini. L'ovvio pericolo dell'insegnare ai mèmbri di un corpo militare a considerarsi dei missionari di una religione, tenuti a diffonderne le dottrine, è che essi useranno certamente al suo servizio le loro spade e le loro lance. Si riterrà che il fine santifichi i mezzi, ed il massacro di migliaia di infedeli verrà ritenuto azione rilevante e perfino positiva, solo che produca la conversione dei superstiti o ne popoli le terre con uomini che professano una fede più pura. A questo proposito, si ricordi il termine "malicidio", coniato da San Bernardo, per definire l'uccisione di infedeli, fossero anche donne e bambini, e la risposta di un vescovo che, alla domanda di un soldato su come avrebbero potuto distinguere gli eretici dai buoni cristiani poco prima dell'assalto ad un villaggio dove vi erano dei catari, rispose: "voi uccideteli tutti, Dio, poi, riconoscerà i suoi". Ma benché, come accidentalmente avviene nelle istituzioni umane, la mescolanza di devozione e carattere militare degenerasse in pratica in brutale intolleranza e superstizione, nulla poteva essere più bello e degno di lode della teoria sulla quale era basata. Che il soldato sguainasse la spada in difesa del suo paese e delle sue libertà, o dell'innocenza oppressa di damigelle, vedove ed orfani, o a sostegno dei diritti religiosi per i quali i detentori non potevano, per professione, combattere di persona; che unisse a tutti i sentimenti che questi uffici ispiravano un profondo senso di devozione che lo innalzava al di sopra dei vantaggi ed anche della fama che gli poteva derivare dalla vittoria, trasformando la sconfitta stessa in lezione di castigo ed umiliazione divina; che il cavaliere, sul cui valore dovevano contare i suoi compatrioti in caso di pericolo, desse loro l'esempio osservando i doveri ed i precetti della religione, tutte queste circostanze erano tanto adatte ad ingentilire ed a dare dignità e grazia alla professione delle armi, che non si può fare a meno di deplorarne la tendenza a degenerare in una feroce propensione alla bigotteria, alla persecuzione ed all'intolleranza. La seconda componente dello spirito cavalleresco, inferiore come forza soltanto allo zelo religioso di chi la professava, e spesso predominante su di esso, era una devozione per il sesso femminile - e particolarmente per colei che ogni cavaliere aveva scelto come oggetto principale della propria passione - di natura tanto stravagante ed illimitata da rasentare l'idolatria. La difesa del sesso femminile, la considerazione dovuta all'onore delle donne, la sottomissione con cui si obbediva ai loro comandi, il timore reverenziale e la cortesia che proibivano, in loro presenza, ogni parola o azione indecorosa, erano a tal punto parte dell'Istituzione della Cavalleria da costituirne l'essenza stessa. Per il cavaliere era essenziale scegliere una dama per fame la stella polare dei suoi pensieri, la signora dei suoi affetti e la guida direttrice delle sue azioni. Era per servire lei che egli doveva essere: leale, fedele, segreto e riverente. Il mondo inferiore del cavaliere era, in misura determinante, riflesso del rapporto che egli era riuscito ad instaurare con la sua dama. Tale rapporto, sovente reale ma assai spesso anche solo virtuale perché basato su sogni o desideri, fantasie sviluppate circa una dama facente parte dell'ambiente del diretto superiore del giovane stesso che arrivava alla propria realizzazione attraverso il legame per una idolatrata figura femminile, tale rapporto era il magnete che generava le energie necessarie a superare le più crude avversità, trasformando gradualmente il precario ferro dell'anima in acciaio ben temprato. In un testo del XII0 secolo, strutturato come una "disputatio" tra cuore e corpo, il cuore palesa al corpo la celebre "allegoria delle erbe" nella quale è fatta menzione delle "erbe" (se. virtù) necessarie a preparare la pozione salvifica che procura al cavaliere salvezza in cielo e felicità in terra. La fonte d'ispirazione dell'allegoria è da ricercarsi soprattutto nel passo del giardino del Cantico dei cantici ed in quello della Armatura dei (Efes. 6, 11-17). Così si legge nell' "Allegoria delle erbe": Corpo, ora devi prestarmi attenzione: nessuno ne avrà maggior vantaggio di tè. Se mai vuoi procacciarti salvezza o anche un po' d'amore, impara dunque una magica arte che, in verità, è buona. Se saprai farti padrone di ciò che a tale riguardo è necessario, riuscirai: la portai dalla Francia. Attento a tenere il segreto, ma non mi darà pena se lo divulgherai. In tal guisa stanno le cose, che chi vuoi mettersi all'opera nel modo giusto deve possedere tré erbe, che lo rendono amabile e caro. Ma non devi aspettarti di trovarle nel giardino di nessuno, ne alcuno le trova da comprare. A meno che uno non abbia la fortuna di ottenerle con retto intendimento da Colui che le ha in Suo potere; altrimenti non c'è consiglio che giovi, egli deve sempre star lontano da loro. Dio è il giardiniere, Lui solo ne ha cura. Incontaminata è la sua camera di provviste: dalla quale da a chi vuole, e quegli ne ha sempre gran beneficio. Le erbe ti sono sconosciute; così sono chiamate: liberalità, finezza d'educazione, umiltà. Nessun'erba è altrettanto buona: il fortunato che può mescolare le tré erbe come si conviene, compie il vero incantesimo. Ma occorrono anche altre erbe prima di compier bene l'opera, fedeltà e costanza: chi non avesse anche queste dovrebbe abbandonare l'arte; e inoltre devi mescolarne ancora due: castità e verecondia; oltre a queste v'è il nome di un'erba: fidato valore; così l'incantesimo è davvero pronto. A chi dunque riesce di aver tutte le erbe, quegli le deve mettere in un recipiente, che è un cuore privo di odio: là dentro egli le deve portare; e voglio dirti in verità che pronta è per lui la beatitudine finché egli le porta con sé. Se potessi disporre delle erbe delle quali, corpo, ti ho parlato prima, guarda, il recipiente tè lo dò io, che lo riconosco in me. Nei loro confronti sei molto manchevole. Ma se puoi averne sempre di più, corpo, fallo, poiché tè lo consiglio, e non fartelo pesare: che se sempre ti dovrà andar bene con le donne dovrai avere questo incantesimo. Ed è anche per certo bene che chi lo fa sia senza vizi e senza gravi peccati. Beato chi ha notizia di loro! Nel mondo è una fortuna, e non dispiace a Dio; da entrambe le parti è un guadagno; Dio e il mondo lo amano: chi possiede quest'arte magica è nel mondo un uomo felice. Negli ottonari a rima baciata appena letti si condensa il codice di comportamento del cavaliere medioevale, indicando i principi etici ai quali conformare il proprio agire. Studiosi assai perspicaci e molto profondi hanno avanzato l'interessante ipotesi che vede nel cavaliere l'Io individuale, nella sua dama il Sé, e nel cavallo l'energia vitale necessaria al cavaliere per il suo peregrinare. Cavalieri particolarmente avventurosi cercavano di distinguersi in fatti d'arme singolari e non comuni in onore della toro dama. Affrontare forze esageratamente impari, combattere in mezzo a cavalieri armati facendo a meno di qualche parte essenziale dell'armatura, compiere qualche impresa di audace valore di fronte ad amici e nemici, erano i servigi coi quali i cavalieri si sforzavano di segnalarsi, o che le loro signore imponevano come prova della saldezza del vincolo. Dopo che all'amor di Dio e della propria dama, il prode cavaliere doveva essere guidato da quello per la fama e per la gloria. Il suo voto lo necessitava ad affrontare avventure rischiose e pericolose, ed a non astenersi mai dalla ricerca intrapresa, per quanto inaspettatamente impari potesse rivelarsi l'opposizione incontrata. Il genio della Cavalleria non richiedeva invero ai suoi seguaci il sobrio e regolato esercizio del valore, ma il fanatismo. Le imprese con cui un avventuroso cavaliere sceglieva di distinguersi erano le più stravaganti e difficili a concepirsi, e le più inutili da compiersi. V'erano anche solenni occasioni in cui queste dimostrazioni di entusiasmo cavalleresco erano, in special modo, attese e richieste. Basti ricordare i tornei, affrontati solo per divertimento e per sete d'onore (che per lungo tempo furono combattuti con armi normali e non "cortesi" e quindi furono causa di morti e feriti), le singolar tenzoni ed i banchetti solenni in cui i voti di Cavalleria venivano usualmente formulati e proclamati. L'ideale della Cavalleria proponeva perfezione cristiana nella vita guerriera e, soprattutto, l'obbligo di combattere per la fede, il che diede ben presto origine alla fondazione degli Ordini Cavallereschi. I privilegi di cui essi godevano e, al tempo stesso, l'esaurirsi della loro funzione di difensori della cristianità in Oriente, in seguito al consolidarsi della potenza turca, portarono gradualmente ad una decadenza dei valori ideali di cui la Cavalleria era depositarla. Quando nei secoli XIV° e XV°, con l'avvento degli Stati regionali e nazionali, le condizioni che avevano determinato il sorgere della Cavalleria mutarono profondamente, il titolo di cavaliere assunse un significato puramente onorifico o nobiliare, e l'Istituzione si svuotò completamente del valore e dello spirito originari. In contrasto con la borghesia mercantile, che veniva sempre più affermando i suoi diritti, quella dei cavalieri tendeva ormai ad essere una casta sempre più chiusa, incapace di assolvere le funzioni per cui era nata la Cavalleria. Non esiste, come è noto, una Storia oggettiva. Lo storico, nonostante le buone intenzioni, quando sono tali, resta condizionato dalla propria formazione culturale, dall'epoca in cui vive, dall'influenza delle dottrine dominanti. I Cavalieri sono, nella concezione popolare, gli uomini che rappresentano l'eroismo al servizio della giustizia. E' cavaliere chi assume le difese del debole contro il forte. Ciò rende prestigiosa la figura del cavaliere e la pone al vertice della gerarchia dei tipi umani. La leggenda e la storia, il poema ed il romanzo si sono associati per costruire un piedistallo da cui essa domini, nell'irradiazione di una gloria misteriosa. Nel corso dei secoli, l'immaginazione si è lasciata incantare dai racconti delle loro imprese favolose, delle toro eroiche avventure. Le donne, che tengono nelle loro mani i serti della vittoria, hanno riservato a questi eroi romanzeschi, nel segreto del cuore, una palpitante emozione. Consideriamo che il cavaliere, da noi abitualmente definito come una creatura del Medioevo, se allarghiamo i nostri orizzonti, è sempre esistito, in tutte le nazioni nobili. Venendo, gerarchicamente, dopo il rè e la regina, egli è la guardia a cavallo che manterrà la pace nel governo regale: è il sale della terra. Deriva il proprio nome dal cavallo; è a tal punto legato a questo animale, che, se per disgrazia decade, viene proclamato indegno di montarlo; in tal caso, nel corso di una solenne cerimonia di degradazione, i supporti degli speroni d'oro gli vengono segati vicino al calcagno. Il cavaliere è in così stretto rapporto con la sua cavalcatura, che condivide con essa gloria e pericoli. E il cavallo? E' solo "la più nobile conquista che l'uomo abbia mai fatto" Victor Hugo disse che "gli animali non sono altro che le figure dei nostri vizi e delle nostre virtù, che errano davanti ai nostri occhi". Il simbolismo attribuisce al cavallo il potere della mediazione, tra la terra ed il desiderio di ascendere. Il cavaliere , pur essendo molto legato al suo cavallo, è profondamente diverso dal centauro che è tutt'uno con la propria parte animale. Nello Zohar è scritto che il mondo è stabile solo in virtù del segreto. Esso diventerebbe instabile se il segreto venisse divulgato; pensiamo a quanti grandi uomini furono colpiti, nel corso dei secoli, a causa della loro imprudente divulgazione (Socrate, Giordano Bruno, ecc). Il segreto non sarà mai divulgato; non lo può essere ma, dappertutto, è rivelato. I costruttori di Cattedrali hanno iscritto l'eco della Parola perduta nel silenzio secolare della pietra, affinchè i predestinati la ascoltino. Soltanto i Maestri possono farlo. La società Medioevale, come quella Antica, è costruita sulla conoscenza iniziatica: il segreto palpita entro le forme simboliche che vengono offerte agli sguardi dall'arte e dalla leggenda, dalla storia e dalle istituzioni sociali. Quanto al segreto della Cavalleria, cerchiamolo nella Cavalleria leggendaria, poiché è questa la prefigurazione di quella reale, siccome si svolge su un piano ideale e non è quindi macchiata dalle debolezze inerenti alle realizzazioni umane. Il suo sangue è più generoso, perché è vivificato da una respirazione più vicina all'archetipo. Non si dice, d'altronde, che la Gerusalemme celeste deve discendere dal cielo alla terra? La Cavalleria leggendaria si muove intorno al ciclo della Tavola Rotonda. In esso si cristallizza la tradizione celtica. La civiltà druidica, così venerata nell'antichità, ha conservato il suo influsso anche dopo aver adottato la formula cristiana. Il mago Merlino, figlio di una vergine e di un dèmone, ha formulato le regole di quest'Ordine che riunisce, intorno ad una tavola rotonda costruita secondo il suo progetto, cinquanta cavalieri (sette al quadrato più l'Unità) che giurano di consacrare le loro forze ad un'impresa misteriosa: la cerca del Santo Graal. Cinquanta? Quarantanove, per essere esatti. Intorno alla Tavola Rotonda c'erano sì cinquanta seggi, ma uno di essi, quello alla destra del rè Artù, era vuoto. Esso era riservato al cavaliere perfetto che avrebbe conquistato il sublime vaso e l'avrebbe, trionfalmente, recato sulla Tavola. Questi fu Galaad. Questa Cavalleria si ricollega, da una parte, alla Cavalleria Druidica e, dall'altra, ad una Cavalleria fiorita nei primi anni del Cristianesimo e che ha, per Maestro, Giuseppe d'Arimatea. Tutte le mitologie, tutte le tradizioni religiose hanno il loro Vaso Sacro. Tutte parlano di una coppa da cui i predestinati, e solo loro, attingono la bevanda dell'iniziazione. Il Graal guarisce le ferite mortali e risuscita i morti, ma il risuscitato torna in vita muto, e per sempre. I segreti del vaso miracoloso, infatti, non devono essere profanati dalla divulgazione. Gli Eletti, ammessi ai suoi misteri, sono votati al silenzio. Il Graal, del resto, non è esattamente un oggetto su cui mettere le mani ma, piuttosto, uno stato di coscienza, un'illuminazione da raggiungere, comprendere e completare. Un famoso poeta ha detto che: "La scienza del passato non è nulla, se davanti a noi non evoca tutto quanto l'avvenire". In virtù della sua leggenda e del suo esempio, la Cavalleria non ha cessato di partecipare alla direzione del mondo, un mondo che può rimanere stabile solo in virtù del segreto

AURO CAPONE

Presidente Associazione per lo Studio degli Ordini Cavllereschi A.S.O.C.