domenica 7 ottobre 2007

Fede cattolica, laicità e laicismo (adversus G. Zagrebelsky)



Di Cosmo Intini
(Terza parte)




La peggiore blasfemia del laicismo consiste forse proprio in questo: nel negare alla Chiesa di operare nella verità “del nome di”, e quindi “della fede per” Cristo Gesù! Ecco come Essa viene ancora criticata: “Se i suoi uomini (della Chiesa) si attribuiscono il pieno possesso dello spirito confondendolo così con quel mondo che essi sono, come potrà non valere anche per la Chiesa la legge inesorabile di tutte le istituzioni ‘secolarizzate’ che si insudiciano della corruzione dei loro membri e, alla fine, ne sono travolte? All’inizio del terzo Millennio, il papa Giovanni Paolo II ha ritenuto necessario chiedere perdono a Dio per un’impressionante sequela di misfatti della Chiesa cattolica, tutti dovuti a commistioni di fede e di potenza mondana. E’ stata un’ammissione di colpa rivolta al passato ma nulla impedisce di ipotizzare che altre ammissioni domani dovranno ripetersi con riguardo al nostro presente, quando sarà anch’esso passato”.[I]
Introdurre riflessioni concernenti il senso precipuo con cui intendere la “Giornata del perdono”, voluta espressamente da Giovanni Paolo II e celebrata il 12 marzo 2000, ci costringerebbe ad inopportune ed eccessive divagazioni: pertanto ce ne esimiamo! Ma non possiamo tuttavia sottacere la distorsione e la tendenziosità con cui l’argomento viene qui introdotto da Zagrebelsky. Questa richiesta di perdono viene infatti riletta strumentalmente dal laicismo ed assunta come alibi per giustificare il proprio anticlericalismo, in quanto evidente prova tanto della “fallibilità” della Chiesa cattolica, quanto della “scelleratezza” della Sua gerarchia, generalmente incline a collusioni di comodo con i potentati politici! “La Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita”,[II] dirà altrove con il tono scandalizzato di un benpensante!
Ma le cose non stanno così, poiché il perdono non è stato invocato dalla Chiesa per Sé stessa come Istituto, ma per l’insieme dei propri figli; né tanto meno per avallare una sorta di “revisionismo storico”, ma per una purificazione della memoria; e nemmeno per giudicare singoli responsabili, ma per ribadire la propria generale fede nella Misericordia di Dio.
Dopo aver così cercato in vario modo di negare alla Chiesa l’effettivo e legittimo possesso dei Suoi attributi di “unità, santità, cattolicità e apostolicità”, proprio allora Zagrebelsky getta definitivamente la maschera svelando quale sia il reale scopo dell’accanimento laicista contro la gerarchia cattolica: la delegittimazione, attraverso essa, della Chiesa in toto. Dice infatti subito di seguito: “…possiamo dire che…la riduzione del Cristianesimo a Chiesa è un peccato (sic!) contro lo spirito”.[III]
Siamo comunque alle solite opportunistiche contraddizioni! Il Cristianesimo non può esser ridotto a Chiesa, eppure, quando fa comodo, Le si riconosce un certo credito in rapporto a quello: “…(il Cristianesimo) ha causato nei secoli momenti di terribile sopraffazione, ora condannati dalla Chiesa stessa”![IV] Sicché, con “liberale magnanimità”, Le si concede almeno il contentino: “Che ne viene allora? Allora…riconosciamo alla Chiesa il pieno diritto di partecipare, insieme agli altri, alla definizione delle nostre identità collettive, ma in parità morale con ogni interlocutore, senza che il nome cristiano giustifichi una pretesa d’incontestabilità”.[V]
Nonostante la “pruderie” mostrata in più di un’occasione da Zagrebelsky - ad esempio lì dove afferma di preoccuparsi di fornire “un solido terreno per fondare quella concordia tra credenti e non credenti che andiamo cercando”,[VI] o anche più avanti dove riconosce “aperto il campo di una vasta cooperazione…(al cui) compito sono chiamati, allo stesso tempo e con la medesima responsabilità verso la convivenza democratica, sia i laici che i credenti”[VII] - se di pretesa bisogna parlare essa è quella con cui il laicismo agogna di sottoporre la Chiesa cattolica al compromesso, in nome di un “dialogo” che è in realtà faziosamente posto soltanto sulle basi proprie del relativismo. Dato che non potrà mai esserci alcun dialogo tra due interlocutori ma solo sterili monologhi, a meno che non si decida preventivamente almeno di donare il medesimo significato alla terminologia da adoperare e di riconoscere il medesimo valore ai concetti che si metteranno in campo, ebbene, a ben guardare è proprio la democrazia laicista a costituirsi quale atteggiamento dal carattere aprioristicamente “anti-dialogo”, perché concede a tutti già in partenza la “babelica” legittimità di basarsi ognuno sui propri linguaggi! Chiedere insomma alla Chiesa di rinunciare alla propria incontestabilità spirituale in nome di un così “snaturato” dialogo, è non solo emblematico nella sua offensività e nella sua arroganza, ma è pure indice di un consapevole sotterfugio: quello che è volto cioè , con l’inganno, a farLa tacere per sempre sommergendoLa nel “chiassoso” disordine del relativismo!
E’ soltanto in questa ottica, e non altrimenti, che si può e si deve leggere infatti la condivisione entusiastica che Zagrebelsky mostra per le idee del teologo protestante D.Bonhoeffer, allorché questi “…abbozza il progetto di una teologia ‘senza Dio’ o, più precisamente, di una teologia che abbandona il Dio della religione, impersonata dalle chiese storiche…: una teologia che si rende possibile anche se, anzi proprio perché il Dio della religione non esiste (più). Nella ‘maggior età del mondo’, di un mondo che ‘basta a sé stesso’ e ‘funziona anche senza Dio’, e non meno bene di prima grazie allo straordinario sviluppo delle conoscenze scientifiche, etiche ed artistiche che riescono perfino a esorcizzare l’estremo terrore della morte tramite trattamenti della psiche (sic!) - dice Bonhoeffer - non c’è più posto per il deus ex machina della religione…poiché è venuto meno questo Dio che proclama la Verità dall’alto della croce, trono del mondo, si apre il tempo della fede nel Dio sofferente ‘che si lasci cacciare fuori dal mondo’ (sic!) e che possiamo conoscere gratuitamente e problematicamente nella fede purificata, disinteressata e ‘demitizzata’ ”.[VIII]
Dato per assodato che il “trono di Cristo nel mondo” è il “soglio di Pietro”, ebbene “cacciare Dio fuori dal mondo” equivale appunto ad “annullare la Chiesa cattolica”! Parole di una tale “mostruosità” non possono insomma essere pronunciate se non da chi intenda sostituire Cristo Gesù con quel noto “principe” che è signore di “questo mondo”!

Contrabbandare tutto ciò dietro un paravento pretestuoso quale possa essere il “dialogo” tra credenti e non credenti vuol dire travisare il reale e più corretto significato che in tale termine è implicito! La questione ci invita insomma ad una necessaria precisazione alla luce del fatto che esso “dialogo”, la cui attuazione è comunque pur sempre auspicata proprio dalla stessa Chiesa, troppo spesso si costituisce come uno dei più equivoci argomenti su cui il laicismo fonda le proprie demagogiche pretese.
In questo caso la demagogia consiste nel cavalcare l’errato presupposto secondo cui il “dialogo”, in ossequio al principio di “egualitarismo e libertinismo” - spacciati per “uguaglianza e libertà” -, rappresenti il democraticistico “processo di discussione con cui due contrari si sviluppano unitariamente risolvendosi in un superiore momento di sintesi”! Tuttavia va eccepito che tale definizione compete in realtà più al termine “dialettica” che non a quello di “dialogo”, il quale comporta invece col proprio etimo ben altra accezione e pregnanza!
Vi è da dire innanzitutto che la pretesa dei “non credenti laicisti”, montata sulla scia delle dichiarazioni conciliari, di dover usufruire per diritto di un dialogo con la Chiesa cattolica alla pari di un qualunque “dialogo interreligioso” - atteggiamento quest’ultimo che è d’altra parte sempre più specificatamente accolto dalla stessa Chiesa, per l’appunto dopo il Vaticano II, in quanto imprescindibile segno di doverosa disponibilità cattolica verso i credenti di altre religioni alla luce del riconoscimento anche in queste ultime dell’effettiva presenza di “elementi di verità e di bontà”-, nel postularsi tramite una illegittima sovrapposizione di contesti fra loro affatto differenti (religioni e sistemi culturali) tradisce, una volta di più, il perpetrarsi dell’inconfessata mistificazione, a cui si è già accennato precedentemente, operata da una concezione idolatrica della democrazia. Ma a parte ciò, se è vero come è vero che “il diritto alla libertà di coscienza e in special modo alla libertà religiosa, proclamato dalla Dichiarazione Dignitatis humanae, si fonda sulla dignità ontologica della persona umana, e in nessun modo su di una inesistente uguaglianza fra le religioni e tra i sistemi culturali umani”,[IX] ebbene né le dottrine religiose non cattoliche né tanto meno quelle culturali, peraltro erronee, possiedono allora per il Concilio un medesimo valore. Al contrario, “l’affermazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa non contraddice affatto la condanna dell’indifferentismo e del relativismo religioso da parte della dottrina cattolica, anzi con essa è pienamente coerente”.[X]
Qual’è dunque il senso col quale intendere l’auspicio, da parte della Chiesa cattolica, di instaurare un “dialogo” con coloro ai quali il proprio Magistero nulla può concedere che possa comportare la seppur minima rinuncia alla centralità sia di Gesù Cristo che di Sé stessa, in quanto Sua vera ed unica Chiesa? Forse mai come in questo caso risulta illuminante considerare il termine secondo l’etimologia che ad esso pertiene in maniera più immediata!
Ebbene, derivando dal greco dia-logos, “dialogo” significa letteralmente “per mezzo, attraverso, a causa della parola”. Pertanto, trattandosi nella fattispecie della parola che è pronunciata dallo Spirito di Verità attraverso la Chiesa di Cristo, essa coincide allora proprio con ciò che usualmente si esprime alla greca con il termine “Logos”: ossia, il Verbo, la Parola assoluta, il Cristo stesso. Tale Parola non è quindi proposta dalla Chiesa cattolica per essere “dialetticamente” inserita in una discussione, ma molto più precisamente per essere “annunciata”: ed è ciò che costituisce davvero il “dialogo per eccellenza”! Del resto il verbo greco dialegomai, da cui il sostantivo dialogos trae origine, traduce appunto “converso, parlo, ragiono, spiego”; mentre da parte sua lo stesso sostantivo dialogos traduce, in una delle sue più antiche accezioni, persino “udienza”! Dal che si desume in definitiva che se al concetto più proprio di “dialogo” non concerne affatto alcun senso di “imposizione”, nondimeno esso non implica nemmeno alcun senso di “opinabilità”!
Nel Catechismo si afferma che la convinzione della Chiesa di poter e dover operare il dialogo con le altre religioni, e con i non credenti, trova la sua base nella convinzione del fatto che la ragione umana “può e deve conoscere Dio”.[XI] Ed inoltre vi si dice: “L’attività missionaria (a cui può essere aggiunta senz’altro anche quella pura e semplice di testimonianza, N.d.A.) implica un dialogo rispettoso con coloro che non accettano ancora il Vangelo…Se infatti (i credenti) annunziano la Buona Novella a coloro che la ignorano, è per consolidare, completare ed elevare la verità e il bene che Dio ha diffuso tra gli uomini e i popoli, e per purificarli dall’errore e dal male”.[XII]
Quando il laicismo (e attraverso di esso il democraticismo) erge il principio del dialogo a propria precipua virtù, accusando peraltro la Chiesa cattolica di difettarne, compie insomma una triplice anticristica mistificazione: si appropria di un valore che in senso assoluto appartiene soltanto alla Chiesa del Logos; sovverte tale valore rivestendolo di un significato contingente che non è più quello reale; lo “rispedisce al mittente”, per così dire, avvalendosene come strumento di rivalsa e di rivolta. Ecco infatti cosa pensa Zagrebelsky: “La democrazia della possibilità, della ricerca deve mobilitarsi contro chi rifiuta il dialogo, nega la tolleranza, ricerca soltanto il potere, crede di avere sempre ragione. Della democrazia critica, la mitezza - come atteggiamento dello spirito aperto al discorso comune, che aspira non a vincere ma a convincere ed è disposto a farsi convincere - è certamente la virtù cardinale. Ma solo il figlio di dio poté essere mite come l’agnello. Nella politica, la mitezza, per non farsi irridere come imbecillità, deve essere una virtù reciproca. Se non lo è, ad un certo punto prima della fine, bisogna rompere il silenzio e cessare di subire”.[XIII]
Da quanto osservato deriva insomma tutta l’“inaffidabilità” del sistema laicistico-democratico a costituirsi, con positiva disponibilità, quale fruitore di un dialogo con la Chiesa cattolica; e ciò vistane appunto l’indole scevra, per sua stessa ammissione, di ogni ritegno a formulare le proprie istanze se non alla luce del risentimento e della ribellione! Al di là dell’apparente pacatezza di quelle sue parole che inneggiano alla mitezza, l’ambiguità in cui cade Zagrebelsky allorché si dichiara democraticamente “disposto a farsi convincere”, manifesta in verità una palese ipocrisia. Innanzitutto perché non è né operabile né tanto meno opportuna l’equiparazione tra un fin troppo agevole atteggiamento che sia “disponibile al mutamento d’opinione” - privo cioè di un reale sforzo di abdicazione, operato da parte di chi, come lui, crede appunto relativisticamente in una pari validità delle diversificate “possibilità” -, con l’impossibilità ontologica per la Chiesa di “farsi convincere”, di mutare cioè il proprio credo su questioni contrarie alla Verità. E poi perché ciò sancisce in maniera chiara la differenza che è da porsi tra la cosiddetta “mitezza” vantata dal laicismo - peraltro da lui indebitamente assurta al ruolo di una “virtù cardinale”, essa che è in realtà e più precisamente uno dei dodici frutti dello Spirito Santo (cfr. Gal 5,22-23 vulg.) - e la “mansuetudine” cristiana: quella è infatti relativizzata (una volta di più) dal poter e voler sussistere solo nella reciprocità; questa è assoluta per il proprio sussistere sempre, fin’anche nel martirio!
Il ventilato bisogno-dovere della cosiddetta “mitezza democratica” di finalmente mobilitarsi per “rompere il silenzio e cessare di subire”, con il suo orgoglioso convincimento di non dover mai accondiscendere per non incorrere nell’umiliante pericolo di essere scambiata per “debolezza” (la quale costituisce propriamente la vera accezione del termine “imbecillità”), tradisce piuttosto la malcelata sussistenza di una vocazione a volersi imporre per l’appunto con la “forza”. E non conta nulla l’incidentale specificazione secondo cui tutto ciò varrebbe in un ambito più specificatamente “politico”! Infatti, l’irriverente e non casuale citazione riguardante la mitezza del “figlio di dio” (scritto emblematicamente tutto in minuscolo), nella sua sottile ironia che la pone ai limiti della bestemmia conferma che, per Zagrebelsky, la tanto auspicata remissività alle regole laiciste deve essere recepita ed assunta anche da coloro che si ostinassero a voler riconoscere Cristo come proprio modello: a cominciare quindi dalla gerarchia! E che tutto ciò sia un esplicito riferimento proprio alla Chiesa, viene del resto confermato dalle ulteriori sue seguenti affermazioni: “La Chiesa vuole essere ‘dialogante’. Purtroppo però, adottato un atteggiamento esteriore amichevole, non sembra mutato quello interiore. Gli interlocutori continuano ad essere considerati non come dei diversi, ma come degli inferiori, sul piano morale e razionale”.[XIV]
Per Zagrebelsky è pertanto la Chiesa che “rifiuta il dialogo, nega la tolleranza, ricerca soltanto il potere, crede di avere sempre ragione”: “…l’interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare (sic!), ma di cui si farebbe volentieri a meno…Il dialogo non è questione di convinzione, ma di opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni tattiche”.[XV] Di conseguenza, a parte la contraddittoria questione sull’effettiva tolleranza o meno della Chiesa, a coloro che sono da Essa con arroganza oppressi non resta altro di legittimo che la “ribellione”!
Vogliamo osservare a tal proposito, e verrebbe da leggere ciò proprio alla luce di un conclamato caso di nomen omen, che la suddetta indole incline alla “rivolta” contro la gerarchia cattolica, più volte palesata da Zagrebelsky, ritrovi curiosamente concorde riflesso appunto nel fatto che dalla scomposizione del suo cognome venga fuori la locuzione “rebel-sky”, che in inglese traduce “ribelle al cielo”! Mentre “zag-”, da parte sua, trova significativa attinenza col tedesco “zach”, che traduce “cosa a punta”; nonchè con lo spagnolo “zaga”, “parte posteriore, coda”. Del resto, lo “zig-zag” indica il “serpeggiare” ed il russo “zagovor” traduce “cospirazione”, ma anche “esorcismo”!
Vogliamo forse con questo indire un qualche processo, e poi pure emettere qualche sentenza? Assolutamente no; perché non è nelle nostre intenzioni giudicare, ma solo esprimere delle contingenze oggettive ancorché singolari. Oltretutto, anche perché il laicismo positivista e materialista non potrebbe mai accondiscendere a ritenere tali operazioni semantiche niente più che giochetti privi di alcun senso scientifico e quindi concreto!
Nondimeno, in maniera sorprendente proprio Zagrebelsky si lascia andare ad una riflessione di tal genere: “Accade però talvolta…che da parte cattolica, anche altolocata, si ricorra ancora oggi a denunce di collusioni demoniache, non solo per modo di dire (la riduzione delle figure della fede a simboli è condannata) onde, anche chi scrive questo articolo potrebbe essere un adepto, nel migliore dei casi incosciente, di Satana”.[XVI]
Il discorso qui risulta inserito nel più grande contesto della “questione morale”; la quale per Zagrebelsky non deve porsi “…nei termini triviali di una graduatoria di meriti e demeriti. Nessuno dovrebbe arrischiarsi a rivendicare un primato di questo genere. Non può esserci una competizione come questa, da cui tutti rischierebbero di uscire malconci”.[XVII] In altre parole, secondo Zagrebelsky la gerarchia cattolica (la parte cattolica “altolocata”), vittima già di suo di una eccepibilità morale, non può con supponenza riconoscere la superiorità appunto morale del Cristianesimo - né tanto meno la propria – sul laicismo; tacciando peraltro quest’ultimo, nei casi limite, addirittura di esplicita collusione con il male! E per avvalorare la propria tesi conclude: “Postulare una morale esterna, dispensata da un’autorità, sia pure paterna come la Provvidenza divina, significa, nel grande colloquio sulla libertà che occupa un celeberrimo capitolo (II, 5, 5) dei Karamazov, dare ragione all’Inquisitore e torto al Cristo”.[XVIII]
Non scenderemo nei dettagli di un’analisi del tanto qui decantato, “celeberrimo capitolo” del romanzo di Dostoevskij, né in un contraddittorio con le numerosissime voci laiciste che, cavalcando i contenuti della nota “Leggenda del Grande Inquisitore” a cui qui si allude, li adoperano per stabilire e poi anche confermare la (per loro) reale sussistenza di una frattura tra Cristo e la gerarchia della Sua Chiesa (nella fattispecie impersonata appunto dall’Inquisitore); Chiesa pertanto accusata di detenere, proprio Essa, un’identità “anticristica”. Per una confutazione immediata di tali calunniose prese di posizione, contro qualunque tentazione che pretenda di riconoscere e decretare alcun contenuto di verità al testo in oggetto ci basta solamente osservare che esso non è, né si può pretendere che esso sia più di quel che gli compete essere: un testo letterario e non sacro; una rappresentazione realizzata da invenzione umana e non certamente una scrittura ascrivibile ad una rivelazione divina!
A Zagrebelsky piace però convincersi della quasi “sacrale” autorità di tale testo, tanto da citarlo a modello in più di un’occasione[XIX] e dedicandogli addirittura la pubblicazione di un intero saggio, forgiandosi così una “verità” ad hoc e pretendendo pure che essa venga accolta dai cattolici medesimi come quella per essi più consona!
La confusione tra verità e verosimiglianza, la quale ultima è l’unica qualità che può concedersi ad un romanzo, sia pur esso d’argomento filosofico-religioso, procede di pari passo con la confusione reiteratamente perpetrata tra “moralità” dell’individuo e “legge morale” a lui esterna! Se la prima è indicativa della libertà goduta dalla persona umana in quanto tale, padrona cioè di agire secondo un giudizio di coscienza che può suggerirgli, in virtù di maggiore o minore ragione, atti “buoni o cattivi”; la seconda invece è “opera della Sapienza divina,…un insegnamento paterno, una pedagogia di Dio”,[XX] la quale viene ratificata, ossia “emanata dall’autorità competente in vista del bene comune…Suppone l’ordine razionale stabilito tra le creature…E’ dichiarata e stabilita dalla ragione come una partecipazione alla provvidenza del Dio vivente, Creatore e Redentore di tutti. L’ordinamento della ragione (del Logos, N.d.A.), ecco ciò che si chiama la legge”.[XXI] Ciò ribadisce insomma l’autonomia, la libertà, ma non certo l’indipendenza della moralità rispetto alla legge morale; e tale specificazione vale come risposta a tutti gli interrogativi ed ai dubbi sollevati in maniera puramente artistico-filosofica, e non punto dottrinale-teologica, dal romanzo di Dostoevskij, nel quale l’Inquisitore rappresenta, ma non è certamente la Chiesa, ed il Prigioniero rappresenta, ma non è certamente Gesù!

Anche la “moralità” delle persone umane che compongono la gerarchia non può sottrarsi agli obblighi di “dipendenza” dalla “legge morale”: è ovvio! Ma la pretesa di rinfacciar loro la legittimità di parlare “in nome” della legge morale e pertanto di effettivamente ratificarne i principi, pur nell’imperfezione morale della loro natura umana, ebbene ciò significa voler, in maniera subdola, rigettare la divinità di Cristo Gesù concedendoGli solamente la Sua umanità! Ma il Mistero è tutto qui: Cristo è Dio nel mentre è uomo! E secondo entrambe le persone, umana e divina, rimarrà sempre accanto alla Chiesa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Mt 28,20)! E’ solo il “grande tentatore” che può sedurre con la menzogna; è solo il “grande mistificatore” che può istillare il dubbio; è solo il “grande ribelle” che può istigare alla rivolta!
Certamente, alla fine di tutta questa disamina contro la tentazione, la mistificazione, la ribellione laicista, non vogliamo nascondere la crisi di moralità e di autorevolezza patita in questi tempi dalla gerarchia. Ma se sono in crisi la Sua moralità, ossia la capacità di aderire alla legge morale, e la Sua autorevolezza, ossia la capacità di guadagnarsi la considerazione popolare, tuttavia non può essere messa in discussione la Sua autorità nel dispensare realmente la legge morale.
D’altronde non è nemmeno di questo che deve preoccuparsi il fedele laico; anche perché “…quel servo che, conoscendo la volontà del padrone, non dispone e non fa secondo il volere di lui, sarà aspramente flagellato, mentre colui che non la conosce, ma opera in modo da meritare delle percosse, ne riceverà di meno. Molto sarà richiesto a colui che molto ha ricevuto, e più si esigerà da colui al quale molto è stato affidato” (Lc 12, 47-48). Il che rappresenta un chiaro monito verso i “pastori” alla cui guida è stato “affidato il gregge” di Cristo! Monito il quale, se non assolve il gregge, perlomeno lo esonera da molte responsabilità!
D’altro canto, in maniera in certo qual modo “speculare”, merita pure che qui si faccia menzione di quel passo della Gaudium et spes in cui si riconosce che “…la potenza di Dio molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni” (IV, 76)! Il che rappresenta questa volta un “incoraggiamento” all’indirizzo di tutti i credenti affinché non disperino, pur non esonerandoli dalle rispettive responsabilità.
In quanto fedeli e pertanto unici e veri “laici”, proprio perchè desiderosi di non essere confusi con gli atei “laicisti”, non possiamo e non dobbiamo cadere nella trappola di operare il medesimo loro “delegittimante” gioco anticristico: quello cioè secondo cui sussisterebbe un problema che sarebbe da ricondursi alle responsabilità esclusive della gerarchia. Valgono piuttosto i reiterati inviti che con sempre maggior insistenza (se non supplica) provengono da una certa parte della gerarchia stessa, a ché si ponga rimedio alla mancanza di un’efficace presenza di una forte e determinata proposta che sia appunto “puramente e legittimamente laicale”, e che miri pertanto alla “tutela” della Chiesa: nel mondo e dal mondo. Tale è difatti la funzione precipua dei laici, il “ministero” che è ad essi pertinente!
Val bene per l’appunto ricordare quanto opportunamente scriveva Attilio Mordini:
“Dicendo questo non intendiamo affatto muovere un processo al clero. Il problema concerne solo il laicato; e le cause del fenomeno sono da ricercarsi nell’affermazione del guelfismo. Da parte del clero, anzi, si sono avuti molti lodevoli tentativi di mutare in meglio la situazione, ma tutto è inutile se non si risale decisamente alle cause prime…Rispondere alle esigenze del proprio tempo significava, nell’era del cristianesimo equestre e veramente militante, combattere di secolo in secolo, e con la medesima tenacia, le eresie tipiche del momento, e quindi instaurare un ordinamento civile atto alla difesa delle istituzioni e delle anime dal morbo che di volta in volta s’avventava sulla Chiesa. Invece nel tempo moderno, vivere il proprio tempo significa, in pratica, accondiscendere alle eresie del secolo cercando un modus vivendi con quelle, purché sia salva la possibilità di ottemperare ai precetti della Chiesa. Da lungo tempo, le organizzazioni del laicato cattolico non sono più state all’altezza dell’avventarsi continuo dei nemici del Cristianesimo e della civiltà; in una parola, i cattolici non sono più stati capaci di combattere”.[XXII]
Concludiamo, dunque, sintetizzando il pensiero: oggi manca quella Cavalleria che possa ergersi quale baluardo difensivo contro le insidie anticristiche che mirano a demolire il castrum della Chiesa cattolica, l’aedificium del Corpo mistico di Cristo; quelle insidie di cui il laicismo democraticistico costituisce per l’appunto l’ariete di sfondamento e di cui Zagrebelsky ha dimostrato d’essere uno dei più pericolosi alfieri!

29 settembre 2007 (nella festa di S.Michele Arcangelo, patrono della Cavalleria)

Cosmo Intini
Assoc. Studi Cavallereschi “S.Giuseppe da Leonessa”





[I] Idem, pg.87.
[II] Idem, pg.159.
[III] Idem, pg.87.
[IV] Idem, pg.48.
[V] Idem, pg.87.
[VI] Idem, pg.17.
[VII] Idem, pg.23.
[VIII] Idem, pg.18.
[IX] Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede del 24/11/2002.
[X] Ibidem.
[XI] Cfr. Catechismo della C.C., 39.
[XII] Idem, 856.
[XIII] G.Zagrebelsky, Il crucifige e la democrazia, Einaudi, Torino 1995.
[XIV] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.146.
[XV] Idem, pg.148.
[XVI] Idem, pg.146.
[XVII] Ibidem.
[XVIII] Idem, pg.147.
[XIX] Cfr. idem, pgg.23, 118, 146, 147.
[XX] Catechismo della C.C., 1950.
[XXI] Idem, 1951.
[XXII] A.Mordini, Il tempio del Cristianesimo. Per una retorica della storia, Il Cerchio, Rimini 2006, p.139.

sabato 6 ottobre 2007

Fede cattolica, laicità e laicismo (adversus G.Zagrebelsky)


Di Cosmo Intini
(Seconda Parte)


Così come delineata, quindi, la “sfiduciosa” prospettiva esistenziale laicista, proprio in quanto “priva di affidamento e di sicurezza” (in una parola: in quanto “priva di fede”), si rivela evidentemente, e “disperatamente”, subordinata oltre che all’“ingegno” anche alla “sorte” ed alla “necessità”. E difatti, ammette Zagrebelsky: “Nessuno di noi, comuni mortali, potrà mai aspirare …a scrollarci di dosso il nostro mondo per indossarne un altro. Nessuno di noi potrà mai pensare di dare un senso, una direzione alla sua e alle altrui vite per trasformarle in qualcosa di totalmente altro”.[i]
Del tutto aliena dalla concezione cristiana che riconosce in una “cooperazione” tra libero arbitrio umano ed intervento “giustificativo” della grazia divina la via per la realizzazione della “vocazione” dell’uomo al proprio “trascendimento”, tale visione morbosamente aderente ai presupposti laicistici mostra tutta la sua “antiumanità” nella reazione cui dà luogo. Infatti, l’evidente mortificazione di tale fondamentale, e tutt’affatto “naturale”, anelito umano al “superamento qualitativo” dei propri limiti, nel momento in cui comporta da una parte la sfiducia in una risoluzione “operata dall’esterno” (da ciò che è di “qualità ontologica” differente e superiore) dall’altra non può evitare di provocare contemporaneamente un “autodivinizzazione”, una “mitizzazione idolatrica” dei propri valori “quantitativi”; proprio perché si esige una compensazione all’innaturalità della mortificazione suddetta. Dato che, ovviamente, anche l’uomo-laicista aspira al “meglio”: “…il senso della vita…è lavorare insieme,…affinché la condizione del labirinto, che è la condizione umana, sia progressivamente resa più sopportabile, più umana, meno ingiusta”,[ii] ebbene, con un sovvertimento ontologico gli “ipervalori” vengono elevati sino a confondersi con i “metavalori”. Si parla di “salvezza”, ma solo di quella che “verrà da noi stessi”! Si parla di “virtù”, ma solo di quelle che “l’uomo si propone come tali”! I “valori democratici” diventano “metavalori”![iii] E così via dicendo!
La grande confusione perpetrata da Zagrebelsky si incentra sulla pretesa di ridurre la fede cristiana a “morale umana”, relativa alla “vita immortale dell’al di là”; laddove, parallelamente, i principi democratico-laicisti sono i “fondamenti della vita morale nell’al di qua”.[iv] In tal modo, la fede viene ad essere “snaturata” e “relativizzata”; tant’è che egli aggiunge: “…non si considera la possibilità che qui, nella libertà, ci possa essere una ricerca morale…degna almeno quanto la fede in promesse di ricompense e punizioni”.[v] Eccoci giunti pertanto alla riduttiva umanizzazione anche della terza virtù teologale, in maniera tale che la “fede” rimane sì concepibile, ma solo in quanto opzione ontologico-morale! E a tal proposito, nel ricordare l’“ammonimento profetico di Solov’ev”, ecco cosa ha avuto modo di far osservare S.E. il cardinale Giacomo Biffi: “…Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso, nell’esortazione a rispettare la natura; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo”![vi]
Peraltro, immediata conseguenza di tutto ciò è che diviene possibile operare anche in maniera inversa; di modo che anche la “morale nell’al di qua” la si può in certo qual modo concepire quale “fede”, oltre che quale “carità e speranza”: ossia come qualcosa che si trasfiguri, liberandosi della sua precipua dimensione “profana”! Osserva difatti Zagrebelsky che la democrazia “…è sempre disposta a correggersi,…(fatti salvi) i suoi presupposti procedurali…e sostanziali…consacrati (sic!) in norme intangibili della Costituzione”.[vii] E’ proprio alla luce di tale ribaltamento che egli definisce riduttivamente la “fede” quale “elemento concreto”, mentre esalta la “democrazia quale “valore astratto”: salvo poi ritenerla, con ennesima opportunistica acrobazia retorica, essa stessa una “fede”![viii] Comunque sia, ecco insomma gettate le basi per l’idolatrica sostituzione, al culto di Cristo, del “sacrale” culto di un sistema politico totalitaristico (ossia “non limitato, né limitabile da alcunché”): il “regno” appunto democratico-laicista!

E’ stato giustamente detto che “attualmente…tutto è stato inglobato sotto il manto della democrazia: è come un’atmosfera che abbraccia tutto e tutto contiene e fuori dalla quale vi è soltanto il nulla…In questo modo la natura, le cose, la realtà passano in secondo piano davanti alla nuova divinità, sul cui altare, se è necessario, devono essere sacrificate…La parola democrazia viene usata come un talismano legittimatore…La democrazia moderna si presenta come una vera e propria religione, anche se atea; infatti…‘la democrazia è per essenza religiosa, poiché ogni religione si fonda sul dogma e sul rito’: 1 ) il dogma è che il potere deriva dal popolo; 2) il rito consiste nella designazione di coloro che esercitano il potere attraverso l’elezione. E’ un dogma che bisogna credere perché il suo rifiuto comporta l’anatema e perfino la persecuzione degli ‘eretici politici’, per usare l’espressione di J.Maritain. In questo modo si instaurerà una nuova era di giustizia e di benessere, che sarà la conseguenza normale e immancabile dello sviluppo democratico: è l’eresia del Plus Grand Sillon, condannata da S.Pio X, che subordinando il cristianesimo alle esigenze della democrazia moderna, di fatto lo abbandonava, proclamando l’autonomia dell’uomo rispetto all’ordine naturale voluto da Dio; è l’eresia della religione democratica, secondo cui non si tratta più di convertire gli uomini al cattolicesimo, ma di convertire il cattolicesimo alle idee moderne. In questo senso si deve parlare della democrazia come di una religione”.[ix]
In più di un’occasione Zagrebelsky avanza l’“insinuazione” che la Chiesa cattolica nasconda la (per lui) riprovevole ed inconfessabile avversione per la democrazia. Anzi, senza usare mezzi termini, spesso addirittura sancisce egli stesso la loro quasi incompatibilità: “Fede religiosa, tanto più se organizzata in chiese strutturate gerarchicamente, e fede democratica costituiscono un connubio difficile, non privo di momenti drammatici”.[x] Ma che bella scoperta! Come può pretendersi che la Chiesa accetti di farsi sopraffare da quella degenerazione idolatrica che abbiamo definito essere la “religione democraticista”, la quale anticristicamente mira ad appropriarsi della Sua precipua natura di “confessione di culto”, per poi sostituirsi ad Essa con un atteggiamento di vero e proprio “scimmiottamento”!?
Il problema, a nostro modo di vedere, non è se la Chiesa sia “incompatibile” con la formula democratica, ma piuttosto se la laicistica religione democraticista odierna sia compatibile con la Chiesa. Questa infatti non nega affatto il pluralismo in sé, bensì non lo può condividere qualora esso sia concepito in chiave, appunto, di relativismo etico! Se Zagrebelsky, con ennesima ambiguità, da una parte dichiara di condividere l’inaccettabilità del relativismo affermando: “Ciò…non significa affatto…che la democrazia assuma il relativismo come suo sostrato etico”,[xi] ovvero pure che: “La democrazia non presuppone affatto quel relativismo etico che il magistero della Chiesa giustamente condanna”;[xii] d’altra parte, immediatamente dopo svela invece la propria reale posizione proclamando che la democrazia “…si basa non solo su di un ethos pubblico preciso: l’apertura al possibile, come diritto di farsi valere riconosciuto a tutte le forze e le concezioni politiche che rispettano l’uguale diritto altrui; ma presuppone anche diverse concezioni private del bene comune”;[xiii] ovvero pure che “la democrazia è per l’appunto il regime delle possibilità da esplorare, attraverso discussione e confronto e secondo la logica del male minore o del bene maggiore nelle condizioni date”.[xiv] E a completamento delle ammissioni secondo cui la “democrazia” è una vera e propria “religione” relativistica, non solo scrive un “decalogo (sic!) per imparare la democrazia”,[xv] ma oltretutto afferma: “Io, un po’ per provocazione, direi che noi, in quanto credenti (sic!) nella democrazia, dobbiamo rivendicare il relativismo come il grande pregio della democrazia stessa”.[xvi]
Le sue perplessità, a riguardo di una presunta “incompatibilità” della Chiesa con la democrazia, nascono pertanto da una illegittima sovrapposizione di significati in realtà differenti; e celano oltre tutto la subdola pretesa che sempre la Chiesa, in nome della propria sincera approvazione di un’assoluta “uguaglianza etica” degli individui, ratifichi quel surrogato che è rappresentato da un del tutto relativistico “egualitarismo” tra i singoli! In altre parole, si tratta della differenza che in filosofia occorre tra la cosiddetta “eguaglianza come fatto” e la cosiddetta “eguaglianza come valore”: nel primo caso l’uguaglianza si viene a dedurre in base al semplice “fatto” che “tutti sono fratelli, in quanto tutti sono figli di Dio”; mentre nel secondo caso l’uguaglianza deriva dalla prescrizione laicista di un precipuo “valore”, quello secondo cui “tutti devono essere uguali” giuridicamente e politicamente (eguaglianza formale) nonché socialmente ed economicamente (eguaglianza sostanziale)!
Come è possibile comprendere subito, questa differenziazione interpretativa dell’“uguaglianza” comporta insomma una differente concezione del modo di intendere l’identità personale, cioè a dire la “persona”: se nel primo caso l’uomo è infatti percepito come costituito anche di una sostanza spirituale, nel secondo caso invece egli è considerato soltanto come una pura e semplice collezione di stati d’animo. Da tale discordanza deriva quindi pure una differente concezione dell’etica, in quanto il cattolico informa i suoi comportamenti alla luce della consapevolezza secondo cui la propria identità biologico-sociologica confluisce e si giustifica in una superiore identità teologica - il che costituisce la tesi tomistica dell’“unità sostanziale della persona umana” -; mentre il laicista, da parte sua, si rifiuta di superare il primo stadio e ritiene l’etica svincolata da qualsiasi precetto dogmatico. Ora, Zagrebelsky afferma in maniera del tutto fuorviante che “…nella relazione che il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio 2007, N.d.A.) al Congresso internazionale sul diritto naturale…, si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o sociologico bensì, con Tommaso d’Aquino, teologico“.[xvii] La tattica laicista ribadisce così la propria sottile indole “disgregativa” (dia-ballica), nel falsare la precisione dei fatti e ribaltarne le conseguenze in maniera che risultino per sé più convenienti! Infatti, se fosse come Zagrebelsky afferma, la concezione cristiana ammetterebbe allora come “operabile” una “bipartizione” della “natura umana”, una sua “scindibilità” in componente “fisica e psichica”, da una parte, e componente “spirituale”, dall’altra; ed inoltre auspicherebbe pure la “negazione” della prima a fronte di una esclusiva “esaltazione” della seconda. Ebbene, se così fosse, il risultato sarebbe molto simile a quello dell’eresia monofisita!
Evidentemente, da parte laicista, qui non si vuole solamente difendere una propria posizione invocando il legittimo “diritto alla libertà di opinione”, ma si tende illegittimamente ad inoculare prospettive distorte da poter subito riconvertire in altrettanti “arieti da sfondamento”! Quando S.Tommaso afferma che ‘principium quo primum intelligimus, sive dicatur intellectus sive anima intellectiva, est forma corporis’,[xviii] ciò significa che “…l’io che si coglie come corporeo negli stati affettivi (in certi stati affettivi) è lo stesso io che, riflettendo, ha coscienza di conoscere, di contemplare la bellezza, di fare metafisica…L’uomo si coglie come uno”.[xix] Ed aggiunge: ‘ipse idem homo est qui percepit se et intelligere et sentire’[xx]. Per dirla con Mons. Carlo Caffarra, “…dunque, la tesi dell’unità sostanziale intende descrivere in primo luogo un’esperienza fondamentale dell’uomo: l’esperienza dell’unità del proprio io nella pluralità specifica delle sue operazioni”![xxi] Per S.Tommaso, quindi, la natura umana non è un concetto “soltanto” biologico e sociologico, ma “anche” teologico!
Zagrebelsky tenta invece di dimostrare che la “realtà naturale” in senso lato - inclusiva cioè in senso particolare anche della “natura umana” - costituisca, così come viene concepita dalla visione cattolica, un concetto “innaturale”; e con ironica perplessità pertanto si chiede: “Che cosa è l’essere umano dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un’intuizione metafisica delle finalità dell’esistenza, un’intuizione di fede…Fides et gratia, dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c’è di più ‘innaturale’ di questa visione della natura, dal punto di vista di chi - legittimamente, si presume ancora - non è credente? Ecco come la natura può diventare una maschera della sopraffazione”.[xxii]
L’“errore” laicista consiste qui nuovamente nel pretendere che la Chiesa dia per scontato quanto per Essa invece non lo è affatto: una netta “separabilità” logica tra il visibile e l’invisibile, una “irriducibilità” ontologica tra il corpo e lo spirito, una “fratturazione” etica tra ambito socio-politico ed ambito religioso! Anche in questo si coglie il tipico operare proprio del “dia-ballo”!

E’ evidente che a questo punto il discorso esiga però la precisazione di quello che è il significato precipuo con cui intendere il termine “natura”, posto come esso è alla base dei fondamentali concetti di “mondo naturale”, di “natura umana” e di “diritto naturale”!
Anche a questo proposito Zagrebelsky procede in maniera mistificante, in quanto prima assegna arbitrariamente alla Chiesa l’adesione ad una mentalità che molto semplicisticamente si conformerebbe ad un “vecchio pregiudizio” che porrebbe come base, nella scelta delle norme etiche, il binomio “natura-artificio” così impropriamente impostato: “…la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi”.[xxiii] Dopo di che passa alla delegittimazione di tale “ormai sorpassato modo di vedere” che lui stesso ha preteso di affibbiare alla Chiesa, per delegittimare la Chiesa stessa: “…è il tempo attuale, il tempo in cui perfino la ‘natura’ dell’essere umano può essere il prodotto del suo ‘artificio’ - potenza della genetica -; il tempo in cui il dentro e il fuori di noi, il soggetto e l’oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana quella distinzione…[xxiv] Non stupisce dunque affatto che proprio quando è diventato insostenibile, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni umane, una norma che assegna al naturale il primato sull’artificiale, sinonimo di inganno, abuso, adulterazione…Così si fa da parte della Chiesa cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all’antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto, ecc.”.[xxv]
La falsificazione dei termini del discorso, così operata dal laicismo, non riesce ad occultare la matrice da cui essa origina: la confusione! Lo stesso Zagrebelsky se lo lascia sfuggire quando afferma trionfalmente che oggigiorno il soggetto-persona e l’oggetto-persona, il dentro e il fuori dell’uomo, “si confondono”! Niente più rimane insomma al proprio posto: né logicamente, né ontologicamente, né eticamente!
Se è da ritenersi errata la distinzione secondo cui sussisterebbe una soluzione di continuità tra il dentro ed il fuori dell’uomo - così come tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e lo spirito, tra l’ambito socio-politico e quello religioso -, ciò non può essere tuttavia nemmeno inteso nel senso che si venga ad attuare tra i due elementi delle suddette endiadi una casuale e disordinata “confusione”. Piuttosto, si attuerà tra di essi un’“organica unità”; o per meglio dire: un reciproco “soggettivarsi” (che è altra cosa rispetto al “relativizzarsi”) il quale viene reso possibile sempre e soltanto alla luce di un identico, oggettivo ed assoluto comune denominatore: Dio Creatore! Secondo la concezione cattolica la “natura umana”, “…creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale. Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice: ‘Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente’ (Gn 2,7). L’uomo tutto intero è quindi voluto da Dio…[xxvi] L’unità dell’anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come la ‘forma’ del corpo; ciò significa che grazie all’anima spirituale il corpo, composto di materia, è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura”.[xxvii] In virtù di tale “unità” tra anima e corpo, “…l’uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno”.[xxviii]
Concepita in tal modo, quindi, la questione non può essere banalmente ridotta ad una dicotomia natura-artificio! Dato che “il termine anima…designa anche tutto ciò che nell’uomo vi è di più intimo e di maggior valore, ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio”,[xxix] ebbene la Chiesa cattolica non “demonizza” affatto ciò che “procede da dentro l’uomo”, in quanto esso si presenta come il libero frutto dell’arbitrio dell’anima e rimane pertanto, proprio per questo, “parte integrante della stessa natura umana”. Del resto, sempre Mons. Caffarra ha avuto modo di esprimere ciò, dicendo: “Il corpo è la trasparenza della persona umana, l’unica creatura in cui è visibile l’invisibile”.[xxx]
Non sussistendo dunque, nella natura umana, alcuna soluzione di continuità tra la sua componente interiore-spirituale e quella esteriore-corporea, e non essendovi soluzione nemmeno tra tale sua componente corporale ed il mondo naturale a sé esterno - in virtù di quel suo già menzionato costituirsi, per volontà divina, quale sintesi suprema del mondo naturale stesso -, ebbene risulta del tutto paradossale e risibile accusare la Chiesa di “innaturalità” a motivo dell’opposizione da Essa esercitata contro il relativismo etico; in quanto tale opposizione si basa sulla semplicissima consapevolezza che tutto ciò che dalla persona umana procede “contro natura”, procede altresì “contro la natura umana medesima”!
Ma la tendenziosità di Zagrebelsky, posta in atto nel suo scoperto tentativo di difendere il relativismo etico, non si ferma certo qui! Per disconoscere infatti il carattere di assolutezza del “naturale”, e quindi la sua superiorità etica rispetto all’“artificiale”, passa a specificare quale sia la propria posizione in merito al concetto giuridico del “diritto”. E così la formula: “Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie - diceva già Aristotele -, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi”.[xxxi] Zagrebelsky in pratica qui cita, “quasi” integralmente, il passo del V libro dell’Etica Nicomachea (V,1134b 18-24) là dove viene sancita la tradizionale distinzione tra diritto naturale e positivo (o legale). Esposta così, sembrerebbe quasi che in base a tale distinzione Aristotele non solo ponga i due diritti su di uno stesso piano, ma che addirittura, in barba a tutta le conclusioni cui è pervenuta unanimemente la critica aristotelica, implicitamente riconosca al diritto legale una certa qual giustificabile preferenza. A Zagrebelsky è bastato infatti “omettere” la continuazione del pensiero aristotelico - il quale, dopo “…ciò che, in origine, è indifferente” così proseguiva: “… ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito” - per suggestionare ad una lettura che si lasci percepire quasi come se lo Stagirita, senza operare alcun distinguo, avallasse il relativismo di un diritto che “permane sempre indifferente ed oltretutto varia secondo luoghi e tempi”! In verità, non solo Aristotele non perde mai occasione per ribadire la superiorità del “naturale” rispetto al “legale”, così come dell’“universale” rispetto al “particolare”, ma oltretutto, nel prosieguo sempre del V libro introduce l’importantissimo concetto di “equità” - di cui Zagrebelsky non fa ovviamente alcuna menzione -, con cui intende: “la rettificazione della legge positiva là dove si rivela insufficiente per il suo carattere universale”, ovverosia “la correzione effettuata dal diritto naturale della legge positiva nei casi in cui sarebbe ingiusto applicare quest'ultima” (cfr. Etica Nicomachea, V,1137b 26-27). L'importanza del concetto di “equità” deriva insomma dal fatto che essa è preposta a regolare ciò che viene ritenuto giusto per legge con ciò che è ritenuto giusto per natura. “L’equità riafferma la giustizia laddove l’universale è inadeguato per il particolare. Il presupposto, dunque, è l’inadeguatezza dell’universale rispetto al particolare…Ma la composizione di universale (diritto naturale) e particolare (diritto legale, positivo) operata dall’equità è solo apparente, in quanto, in realtà, particolarizza l’universale. E ciò non per il semplice autonomizzarsi del particolare rispetto all’universale ovvero per ipotetica esenzione del particolare dal dominio dell’universale, quanto, al contrario, per l’omogeneità di giustizia universale e equità particolare…Per Aristotele l’equità è una forma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso (cfr.V, 1138a 2-3)…L’omogeneità tra giustizia universale ed equità particolare rinvia quindi ad una giustizia ulteriore di cui non solo l’equità particolare, ma la stessa giustizia universale è un caso particolare. Tale giustizia ulteriore che particolarizza la stessa giustizia universale è chiamata da Aristotele ‘giustizia in senso primo’ e ‘giustizia in senso assoluto’ ”.[xxxii]
Dunque, riassumendo: secondo Aristotele la legge positiva può essere soggetta all’errore laddove non risulti sufficientemente adeguata alla legge naturale; mentre l’equo, da parte sua, “è giusto, ed è migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in assoluto, ma di quell’errore che ha come causa la formulazione assoluta” (E.N. , V,1137b 24-25). Proprio con questo riconoscere l’esistenza di ciò che lui definisce “giusto primo, ovvero giusto in senso assoluto”, Aristotele fa insomma riferimento ad un qualcosa che è addirittura “anteriore ad ogni espressione sotto forma di legge”; e con ciò non solo non concede in maniera definitiva il seppur minimo spazio ad alcuna tentazione interpretativa di tipo positivo-relativistica, ma dimostra pure di aver considerato da un punto di vista per così dire “teologico” oltre che gli ambiti della fisica e della metafisica, giustappunto anche quello dell’etica![xxxiii]
Per tornare al rapporto tra diritto naturale e positivo, è dunque giusto osservare che la giustizia “…non si esaurisce nella positività della legge. È noto come poneva il problema Aristotele…(Il suo) modo di porre il problema ha il merito di evidenziare che la giustizia naturale non è un corpo legale astratto, astorico e separato dal giusto politico, ma una componente o uno strato di questo. Il giusto naturale è lo strato fondamentale e originante della giustizia, il fondamento ultimo della legittimità politica, ma è tuttavia insufficiente da solo per ordinare la vita sociale. Perciò deve essere concretizzato, determinato e sviluppato in funzione del bene comune politico di ogni popolo dal giusto per convenzione di legge, vale a dire, dalla parte del diritto politico che qui chiamiamo diritto positivo”.[xxxiv]
Eppure Zagrebelsky, nonostante tutto, continua ad eccepire che “…il diritto naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l’umanità intera in nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Al contrario è il terreno dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la ‘natura’ alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è opera del demonio…Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la natura è madre benefica e per altri, matrigna malefica ”.[xxxv] E così conclude: “…non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall’interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura”.[xxxvi]
L’errore madornale in cui cade questa impostazione, frutto di chiarissimo “relativismo etico” - atteggiamento, quindi, che solo in apparenza viene altrove sconfessato da Zagrebelsky -, è quello di supporre di poter (e quindi di dover) riconoscere una “superiorità ontologica” alla “natura”, e pertanto al “diritto naturale”, solo in base ad un mutuo e totale consenso! Se così fosse - se cioè si potesse operare un simile giudizio in base ad un semplice criterio d’opinione, di sistema di pensiero, di visione del mondo -, per formulare tale “superiorità” non basterebbe allora, in ossequio allo spirito democratico, anche solo una “maggioranza”? Ed in effetti noi potremmo dire allora che fu proprio ciò che si sarebbe già verificato nel passato, quando lo gnosticismo manicheistico, quel pensiero che sulla base di una concezione “dualistica” riteneva il mondo naturale appunto “opera del demonio”, non si costituì mai in seno alla cultura europeo-cristiana più di una “minoritaria” visione, settaria ed eretica.[xxxvii] Mentre, d’altra parte, l’adesione “pressoché generale” al diritto naturale nel senso classico del suo valore, sarebbe stato allora ciò che lo avrebbe sostanzialmente legittimato come eticamente superiore! D’altro canto, ancor meno reggerebbe un’impostazione basata su di un giudizio che vorrebbe tener conto di dati emotivo-sentimentali i quali, proprio in quanto tali, si costituiscono come puramente soggettivi ed inevitabilmente “parziali”! La stessa “visione” razionalistica impone, ai propri cultori, che si eviti di indulgere in posizioni che ingenuamente valutino la “natura” sulla base di parametri del tipo “benignità o malignità”!
In definitiva, se c’è qualcuno che cade nell’erronea pretesa di emettere un qualsivoglia giudizio sulla natura in base ad un’impostazione relativisticamente “culturale”, ebbene quello è proprio Zagrebelsky! I presupposti della Chiesa cattolica sono invece ben altri, in quanto essi si incentrano sulla “ragione naturale” intesa quale dote “assoluta”, e non meramente accidentale, dell’essere umano. Attraverso la ragione, “naturalmente” conferitagli ab initio da Dio, l’uomo assume infatti la propria dignità, la propria libertà, il proprio arbitrio e potere: ed è in ciò che egli è reso “simile” a Dio stesso, verso cui la stessa ragione risulta ordinata! “La legge naturale è iscritta e scolpita nell’anima di tutti i singoli uomini; essa infatti è la ragione umana che impone di agire bene e proibisce il peccato…Questa prescrizione dell’umana ragione, però, non è in grado di avere forza di legge, se non è la voce e l’interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi”.[xxxviii] Ed inoltre: “La legislazione umana non riveste il carattere di legge se non nella misura in cui si conforma alla retta ragione; da ciò è evidente che essa trae la sua forza dalla Legge eterna. Nella misura in cui si allontana dalla ragione, la si deve dichiarare ingiusta, perché non realizza il concetto di legge: è piuttosto una forma di violenza”.[xxxix] In altre parole, la legge divina e naturale è così chiamata “…non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana”.[xl]
Checché ne dica Zagrebelsky è in realtà fuor di dubbio che il “diritto naturale”, oltre a non essere stato affatto cagione di confusioni, sia invece rimasto sostanzialmente inalterato attraverso la storia, rappresentando anzi un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture: lo abbiamo visto con Aristotele nel mondo ellenico, ma lo possiamo riconoscere anche nell’antica Roma con il basilare concetto dello ius gentium, così come fu posto a tutela del buon governo e della giustizia.[xli] E come fu per Aristotele (parlavamo prima della sua teologia dell’etica), ancor più per il mondo romano il diritto naturale, lo ius , instaurava intime relazioni metafisiche con il divino! Lo si può constatare per il fatto che “…ius (dall’ i.e. *YOUS), ancor prima di costituire un termine del lessico giuridico, indica ‘lo stato di regolarità, di normalità, richiesto dalle regole rituali’ e prescrive quello a cui ci si deve attenere. Il diritto romano è fondato sulla norma assoluta: lo ius procede dal Fas al quale è indissolubilmente legato come l’effetto alla causa e nel quale ha la sua giustificazione”.[xlii] Il Fas (dall’i.e. *BHA-), da parte sua indicava “la parola vivente in sé”: da cui Fatum, ossia “la parola manifesta, la volontà divina che diviene norma e legge per gli uomini e gli dèi”, e Fastus ossia “ciò che è conforme al diritto divino e lo realizza nel mondo”! Cicerone d’altronde insegnava che “…certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore…E’ un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente”.[xliii]
Come è emblematicamente dimostrato dal fatto che nelle più antiche fonti compare spesso la significativa frase: jure romano vivit Ecclesia (la Chiesa vive secondo il diritto romano), la Chiesa affonda dunque le proprie radici giuridiche in questo complesso humus, che sarebbe del tutto riduttivo voler definire soltanto un occasionale “sistema di pensiero”. Il riconoscimento mostrato da parte di tutte le più importanti civiltà antiche a riguardo della necessità di “conformarsi alla legge naturale” (e non di “darne consenso”, come dice Zagrebelsky), esprime infatti chiaramente l’innata consapevolezza umana del fondamento intrinseco di tale legge, atto a stabilire i giusti confini entro cui mantenere l’ordinamento sociale: prova ne sia l’immutabilità con cui tale consapevolezza ha attraversato ed accompagnato i pur diversificati sistemi politici ed i differenti credi religiosi che hanno scandito i vari momenti storici delle singole civiltà stesse!
Il laicismo che si scaglia contro la Chiesa, accusandola di voler scalzare la visione etico-relativista per sostituirla con quella naturale, compie pertanto una doppia mistificazione! Quando Zagrebelsky dice: “…si ragiona come se le nostre società fossero prive di identità, avendola perduta o distrutta, e si discute perciò di come darne una nuova o di come ripristinare l’antica. La riscoperta delle ‘radici cristiane’ è il punto d’arrivo di questi ragionamenti. Poiché in apparenza si tratta di colmare un’assenza, i promotori d’identità…agiscono non per riempire vuoti ma per avviare sostituzioni…essi combattono una battaglia di egemonia culturale che non è solo per, ma innanzitutto contro. Non sono benefattori ma conquistatori”;[xliv] ebbene non solo ciò costituisce l’ennesima occasione in cui “il bue dice cornuto all’asino”, in quanto è la visione laicista che ritiene legittimo il “sostituire” quella che per innumerevoli secoli ha invece costituito, pur nelle diverse realtà sociali e politiche, la “giusta e naturale” comune norma etica; ma oltretutto qui si nega il senso spirituale, “di rivelazione divina”, che è il vero e proprio presupposto della “legge naturale”, per “sostituirlo” sovvertendolo con qualcosa di meramente “umano”. Se il Magistero cattolico afferma che “la legge naturale offre alla Legge rivelata e alla grazia un fondamento preparato da Dio e in piena armonia con l’opera dello Spirito”,[xlv] da parte sua invece, Zagrebelsky ritiene che “la base della società e del governo è l’essere umano come tale, né più né meno. L’origine spirituale (sic!) di questa rivoluzione è l’Umanesimo; il compimento, il razionalismo sei-settecentesco, sfociato nella Rivoluzione francese. Il prodotto costituzionale di questa emancipazione è lo Stato laico”.[xlvi]
Questo vero e proprio “atto di ribellione”, perpetrato dall’uomo laicista contro l’ordine stabilito da Dio, si palesa in maniera ancor più eclatante allorché Zagrebelsky distingue: “In origine, c’è l’invito di S.Paolo ai cristiani di Roma affinché ubbidiscano all’autorità, perché voluta da Dio: nulla potestas nisi a Deo (‘nessun potere se non da Dio’, N.d.A.)…[xlvii] Volendo ancora ricorrere, nell’epoca presente, al motto paolino lo si dovrebbe rovesciare (sic!): nulla potestas nisi a hominibus (‘nessun potere se non dagli uomini’, N.d.A.). Gli uomini stanno insieme e obbediscono all’autorità in nome non del Dio comune ma dei propri diritti”.[xlviii] Tutto ciò contiene dei presupposto molto ambigui e pericolosi, poiché in tal modo il concetto di “giustizia” viene ad essere scisso da quello di “libertà”, in maniera tale che il giusto perde ogni carattere di assolutezza ! E’ proprio quello che sostiene lo stesso Zagrebelsky: “…la dottrina (sic!) laica dei diritti non è quella cattolica, come risulta da un punto cruciale: per la prima, il limite dei diritti è l’uguale diritto altrui; per la seconda, l’ordine naturale giusto. La differenza è capitale. La prima dottrina mira alla libertà; la seconda alla giustizia”.[xlix]
Uno dei più abusati “cavalli di battaglia” laicisti - per avvalorare la tesi secondo cui la Chiesa compia un’illecita e mistificante ingerenza a riguardo del “potere civile” in quanto espressione di “autorità”, anche solo concependolo come necessariamente “derivante da Dio” - è la citazione del famoso passo evangelico riguardante la problematica del “tributo a Cesare” e dei rapporti di questo con Dio (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25). Nell’introduzione del libretto di cui ci stiamo occupando, scritta dal direttore E.Mauro, leggiamo infatti che “…Cesare non può diventare, duemila anni dopo, unità di misura di Cristo, dopo che il Vangelo li aveva separati come autorità distinte, ciascuna con il suo carico di obbligazioni per l’uomo-cittadino, dividendone i regni e i mondi”.[l] Da parte sua, in maniera subdola ed in completa malafede, Zagrebelsky cerca poi di accaparrarsi addirittura una propria (presunta) conformità al vero spirito di Cristo, affermando che Gesù risulta tradito allorché, nonostante l’esplicito Suo dettato di “rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, la Sua Chiesa pretende invece (così lui dice) di costituire il Cattolicesimo quale “religione civile”: “…per i vantaggi materiali immediati che ne possono derivare, sia agli uomini di chiesa che a quelli di stato. Questa idea politica della religione cristiana, pur ben radicata nella storia…sembrerebbe essere una bestemmia (sic!) dal punto di vista del messaggio di Gesù di Nazareth, ridotto a strumento di governo o a ideologia. In ogni caso è un’aberrazione dal punto di vista di quel supremo principio di laicità che sta scritto nella Costituzione”.[li]
Ma le cose non stanno affatto così! Evidentemente a Zagrebelsky, al quale è pur piaciuto evocare in altri contesti il dialogo tra Gesù e Pilato, non piace invece tener conto di tutte le parole pronunciate dal Cristo in quello stesso frangente, quando inequivocabilmente rammenta come ogni “autorità”, e pertanto anche quella civile, “venga dall’alto” (cfr. Gv 19,11). Va detto peraltro che spacciare Cesare, il sacrale Imperatore Romano, il rex et sacerdos pontifex maximus, per un qualunque moderno (e laicista) presidente di repubblica o di parlamento, carico cioè soltanto “di obbligazioni per l’uomo-cittadino” e non anche in primis “per le divinità tutelari di Roma”, costituisce non solo una distorsione storica, ma pure una falsificazione della teologia inerente al potere civile romano che certamente Pilato non avrebbe potuto mai nemmeno lontanamente concepire. Il che rende assolutamente fuor di luogo far assurgere la figura di Cesare a paradigmatico antesignano della “laicità” dello Stato! Ma oltre a ciò, il dettato di Gesù di “rendere a Cesare…etc.” sta principalmente a significare che “bisogna restituire al proprietario ciò che a lui legittimamente già appartiene”. Ora, mentre nell’episodio del “tributo a Cesare” viene chiaramente specificato che esso è legittimo in quanto in tal modo si “restituisce” il denaro che egli ha coniato, non viene invece esplicitamente detto che cosa sia legittimo “restituire” a Dio! Gesù lo dirà effettivamente in seguito, allorché dinanzi a Pilato, durante il Suo processo, lascerà con chiarezza appunto intuire che, tra le altre cose, anche l’autorità di Cesare va “restituita” a Dio!

Quando il Magistero della Chiesa cattolica afferma che “la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine stabilito da Dio”,[lii] e poi specifica pure che “se l’autorità rimanda ad un ordine prestabilito da Dio, la determinazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini. La diversità dei regimi politici è moralmente ammissibile, purché essi concorrano al bene legittimo delle comunità che li adottano. I regimi la cui natura è contraria alla legge naturale…non possono realizzare il bene comune delle nazioni alle quali essi si sono imposti”,[liii] ebbene la Chiesa non dimostra quindi quella tanto paventata “inconciliabilità” con il sistema pluralistico-democratico, ma piuttosto solo con quella forma esasperata di “democrazia totalitaristica” che è costituita dal laicismo.
Partendo sempre dal dialogo tra Gesù e Pilato, scrive ancora S.E. il cardinale Juliàn Herranz: “Meditando sullo stesso drammatico processo di Gesù, Giovanni Paolo II ha scritto: ‘Così, dunque, la condanna di Dio da parte dell'uomo non si basa sulla verità, ma sulla prepotenza, sulla subdola congiura. Non è proprio questa la verità della storia dell'uomo, la verità del nostro secolo? Ai nostri giorni tale condanna è stata ripetuta in numerosi tribunali nell'ambito dei regimi di sopraffazione totalitaria. E non la si ripete anche nei parlamenti democratici, quando, per esempio, mediante una legge regolarmente emanata, si condanna a morte l'uomo non ancora nato?’. Bisogna, perciò, affermare chiaramente e con forza - per difendere il diritto inalienabile alla vita, ma anche per prevenire le intelligenze oneste contro i sofismi dei falsi democratici - che questa riduzione meramente soggettivista e agnostica della libertà e del diritto è contraria non soltanto alla dottrina sociale cristiana ma anche al concetto tradizionale e sano di democrazia. È stato, infatti, rilevato da filosofi come Maritain, Del Noce o Possenti e da giuristi come Cotta, Hervada, Finnis o Waldstein, ma sono solo alcuni nomi, che gli autori classici anteriori al dilagare dogmatico dell'ideologia liberal-agnostica hanno interpretato sempre la democrazia come un ordinamento sociale di libertà avente confini naturali. Non con dei limiti esterni, imposti autoritariamente dal di fuori (tendenza totalitaria) oppure imposti tramite un semplice e onnicomprensivo accordo pattizio (tendenza liberal-radicale), ma con dei confini aventi un fondamento intrinseco: la legge naturale, il diritto naturale o ius gentium. Purtroppo, l'ideologia liberal-radicale, fondata sull'agnosticismo religioso e il relativismo morale, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, ha reso pericolosamente incerti i limiti della razionalità e della legittimità della norma. Ciò ha indebolito profondamente l'ordinamento giuridico democratico di fronte alla tentazione di una libertà denaturalizzata: di una libertà, cioè, senza i limiti veramente liberatori della verità oggettiva sulla natura e la dignità dell'uomo e della vita umana”.[liv]
Stando così le cose, viene allora da chiedersi: perché tanto accanimento laicista contro tale presunta “antidemocraticità” della Chiesa? Quale può essere la “questione pregiudiziale” che impedisce di riconoscere piuttosto nella Chiesa cattolica l’Istituzione storica che, per Sua natura precipua, più di qualunque altra è garante per l’uomo di “libertà e diritto”?! Per provare a darci una risposta bisogna però procedere con ordine!
Ecco innanzitutto cosa viene detto da Zagrebelsky: “Diverso era lo spirito del dialogo che anima molte pagine, aperte alla speranza, del Concilio Vaticano II, nelle quali il ‘mondo moderno’ è assunto come interlocutore positivo…diversa era la concezione del rapporto tra fede e ragione, tra fede e attività dei cristiani nel mondo…Ma (oggi) è ancora così?”.[lv] E poi altrove aggiunge: “Ma chi oserebbe negare che nei secoli la Chiesa abbia invece piuttosto avversato la democrazia e appoggiato ogni sorta di autocrazia, che abbia praticato più l’imposizione che il rispetto delle coscienze? Chi potrebbe dimenticare la violenza di cui è stata dispensatrice in nome della fede che custodiva? Chi può avere la memoria così breve da ignorare che l’unica ‘libertà’ riconosciuta è stata quella di aderire alla vera religione e che ogni rivendicazione di libertà diversamente indirizzata è stata oggetto di dure condanne?”.[lvi]
Ora, alla luce di ciò, ci insorge subito il sospetto che più di una “pregiudiziale” da risolvere qui si tratti in realtà di un “pregiudizio” che si vuole arrecare alla Chiesa! Né può essere diversamente se, in maniera evidentemente opportunistica, da una parte si vuole lodare il Concilio Vaticano II sulla base di un suo “presunto” accoglimento delle istanze modernistico-liberal-laiciste, mentre dall’altra parte si addita con spregio un’altrettanto “presunta” inveterata disposizione autocratica della Chiesa. Oltretutto, tale contraddizione viene pure macchiata dall’incongruenza secondo cui la Chiesa medesima, nei duemila anni della Sua storia, avrebbe avversato la democrazia per “secoli”, quasi che questa forma di governo non si sia affermata non molto più tardi di appena due secoli fa! Ma contraddizioni ed incongruenze non giocano a favore di affermazioni che aspirino a costituirsi come probanti, né tanto meno forniscono garanzia di sincerità! Lo si capisce meglio nel prosieguo, là dove Zagrebelsky dice ancora: “Le guerre civili di religione sono di fronte a noi, a insegnare che cosa produce l’intreccio tra politica e religione quando non è data unità di fede. Incrinata l’unità dei cristiani dai movimenti ereticali a partire dal XII secolo, rotta poi dalla riforma luterana e dallo scisma anglicano, quell’intreccio ha alimentato solo divisioni e sopraffazioni. L’Europa cristiana divisa divenne campo di battaglia, con faide crudelissime tra cristiani di diverse confessioni, inquisizioni, cacce alle streghe, roghi di eretici e pogrom di ebrei. Eserciti di Stati scesero in campo in nome delle diverse professioni religiose. La religione, una volta rotta la sua unità, non era più assicurazione di alcuna ‘premessa normativa’. Anzi: era diventata endemico fattore di sovversione, odio, miseria, ostilità. Se ne uscì non con vincitori e vinti ma con una soluzione costituzionale: l’emancipazione dello Stato, la sua distinzione dalla religione e la regolamentazione di questa come elemento della coscienza individuale e sociale, e non più come elemento direttamente politico”.[lvii]
Ma come! Pur di dimostrare un’indole della Chiesa cattolica adusa alla sopraffazione, alla prepotenza, alla soverchieria, qui si concede addirittura, in contraddizione piena rispetto a tante altre occasioni, che l’Europa sia stata in origine effettivamente cristiana e cattolica nella sua comune identità?! “La riduzione della storia europea a storia cristiana è un falso storico”,[lviii] sostiene infatti altrove Zagrebelsky! E si concede pure che tale sua originaria comune identità cattolica sia stata messa in crisi dalla perdita dell’“unità di fede”?! Ma allora, il nocciolo della questione non è tanto rappresentato dall’“intreccio etico-morale tra politica e religione”, né da una del tutto fittizia “antidemocraticità” della Chiesa; quanto piuttosto, ed è proprio quello che va affermando da sempre il Magistero cattolico, dalla perdita e quindi dalla mancanza di “unità di fede” nell’unica Chiesa di Cristo Gesù! Dice il Catechismo: “L’unità che Cristo ha donato alla sua Chiesa fin dall’inizio…noi crediamo che sussista, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica e speriamo che crescerà ogni giorno di più sino alla fine dei secoli…La Chiesa deve sempre pregare e impegnarsi per custodire, rafforzare e perfezionare l’unità che Cristo vuole per lei…Il desiderio di ritrovare l’unità di tutti i cristiani è un dono di Cristo e un appello dello Spirito Santo”![lix]
Tuttavia, pur di evitare ogni concessione al valore storico del Cattolicesimo, la suddetta inderogabile unità è ritenuta da Zagrebelsky una “condizione impossibile”, perlomeno da ripristinare;[lx] e peraltro un’“insuperabile difficoltà” sussiste nei confronti dei non credenti, visto che “…in che consista l’essere e l’agire conformemente a quel che l’esistenza di Dio richiede, il laico non sa e gli uomini di fede si sono combattuti per mill’anni ciascuno ritenendo di saperlo meglio degli altri. Occorre un’autorità riconosciuta ed è sottinteso che sia il magistero cattolico. Ma come può chiedersi a un non credente di contraddire così profondamente sé stesso, al punto di affidarsi a ciò che gli si dice a proposito di un Dio che non conosce? Il consiglio che la Chiesa rivolge così al non credente (ossia di indirizzare la propria vita ‘veluti si Deus daretur’, ‘come se Dio ci fosse’, N.d.A.) ha un solo contradditorio significato: seguimi, per atto di fede”.[lxi]
Ma in tal modo la contraddizione non è in realtà patita dalla Chiesa, bensì dal “serpente che si morde la coda”! Così come prospettati da Zagrebelsky, infatti, i termini della questione sono invertiti nella loro logica successione, in quanto è ovvio che il “non-credente” non conosca Dio: se lo conoscesse, allora crederebbe! E poi la Chiesa non pretende affatto, bensì soltanto consiglia (come del resto riconosce lui stesso, seppur ironicamente): non pretende cioè di “esser seguita per fede”, ma consiglia “di aver fede per poterLa così seguire”! Se volessimo spiegarci da un punto di vista della sintassi, quel “per atto di fede” non è insomma un complemento “di limitazione”, ma “di modo”. E pur nella sua sottigliezza ciò non costituisce una ininfluente sfumatura!
Se infatti il processo di “divisione della fede cristiana”, l’azione del dia-ballo operato dall’anticristicità prima attraverso i movimenti ereticali, poi con gli scissionisti protestanti e adesso col laicismo liberal-massonico, ha causato nei secoli la progressiva alienazione dello Stato dalla Chiesa, dell’etica socio-politica dalla religione, nonché, in fase terminale, ha comportato l’inevitabile perdita della “conoscenza di Dio” da parte di tanti cristiani - cioè a dire la perdita appunto della loro fede -, ebbene come sarà mai possibile “conoscere Dio” senza quella stessa fede che si è rigettata e smarrita? Dice il Magistero: “La fede cerca di comprendere: è caratteristico della fede che il credente desideri conoscere meglio colui nel quale ha posto la sua fede, e comprendere meglio ciò che egli ha rivelato; una conoscenza più penetrante richiederà a sua volta una fede più grande. La grazia della fede apre ‘gli occhi della mente’ (Ef 1,18)…Così, secondo il detto di S.Agostino: ‘Credi per comprendere: comprendi per credere’ ”.[lxii]
Non è quindi lecito per il laicismo concludere che la Chiesa voglia imporre “antidemocraticamente” la Sua verità, se per democratico bisogna intendere “ciò che permette la libera scelta alla luce di un diritto”; proprio perchè la fede implica, accanto all’intervento della grazia divina, la cooperazione dell’intelligenza e della volontà umane. Per giungere alla fede, ossia alla conoscenza di Dio - il che è un diritto che Dio stesso ha concesso all’uomo -, è necessario insomma il “libero consenso” intellettuale dell’individuo!
Ma tale consenso che conduce alla conoscenza, non può passare che attraverso l’esclusiva fedeltà alla Chiesa apostolica di Cristo Gesù! Ricorda in proposito il Catechismo: “La fede dei fedeli è la fede della Chiesa ricevuta dagli Apostoli, tesoro di vita che si accresce mentre viene condiviso”.[lxiii] Tutto ciò che è stato insegnato dal Cristo agli Apostoli è stato ritrasmesso da Essi alla Chiesa, che continua a parlare e ad agire “nel Suo nome” affinché “Egli sia conosciuto”! Si pensi ad esempio alla preghiera del Pater Noster: “Quando Gesù confida apertamente ai suoi discepoli il mistero della preghiera del Padre, svela ad essi quale dovrà essere la loro preghiera, e la nostra…La novità…è di ‘chiedere nel suo nome’ (cfr. Gv 14,13). La fede in lui introduce i discepoli nella conoscenza del Padre, perché Gesù è ‘la via, la verità e la vita’ (Gv 14,6)”.[lxiv] Quanta mistificazione dunque nelle ipocrite parole di Zagrebelsky, allorché sminuisce tale stessa preghiera bollandola, con sentimentalismo, come “…il testo dove più facilmente avrebbe potuto annidarsi (sic!) un discorso teologico sulla verità, (ma che) è al contrario (soltanto) una commovente espressione di spirito filiale”![lxv] Continua...


[i] Idem, pg.136.
[ii] Ibidem, sg.
[iii] Cfr. Idem, pg.108.
[iv] Cfr. Idem, pg.147.
[v] Ibidem.
[vi] G.Biffi, Attenti all’Anticristo! L’ammonimento profetico di V.Solov’ev, Piemme, Casale Monferrato 1991.
[vii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.20.
[viii] Cfr. Idem, pg.47.
[ix] Estanislao Cantero Nùnez, Evoluzione del concetto di democrazia, in Quaderni di Cristianità, anno I, n. 3, 1985.
[x] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.47.
[xi] Idem, pg.21.
[xii] Idem, pg.46.
[xiii] Idem, pg.21.
[xiv] Idem, pg.125 sg.
[xv] Cfr. supra, nota 56.
[xvi] Non possumus: la Chiesa divide la società?, cit.
[xvii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.170.
[xviii] S.Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q.76, a.I.
[xix] S. Vanni-Rovighi in A. Ales Bello e F. Brezzo (a cura di), Il filo(sofare) di Arianna. Percorsi del pensiero femminile nel Novecento, ed. Mimesis, Milano 2001, pg.55.
[xx] S.Tommaso d’Aquino, ibidem nota 115.
[xxi] Mons. Carlo Caffarra, “Corpore et anima unus”: la rilevanza etica dell’unità sostanziale dell’uomo all’inizio del terzo millennio, Congresso Tomista Internazionale, Roma 24 / 9 / 2003.
[xxii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.170.
[xxiii] Idem, pg.165.
[xxiv] Ibidem.
[xxv] Idem, pg.166.
[xxvi] Catechismo della C.C., 362.
[xxvii] Idem, 365.
[xxviii] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 14.
[xxix] Catechismo della C.C., 363.
[xxx] “Corpore et anima unus”, op.cit.
[xxxi] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.166.
[xxxii] Giampaolo Azzoni, L’idea di giustizia tra universale e particolare, Relazione al XXII Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Macerata 2-5 ottobre 2002.
[xxxiii] Cfr. in proposito John Dudley, Dio e contemplazione in Aristotele. Il fondamento metafisico dell’Etica Nicomachea, Vita e Pensiero, Milano 1999.
[xxxiv] Angel Rodriguez Nuno, Diritto positivo, diritto naturale e giustizia oggi, in «Nuntium» VII/19 (2003), pp. 45-50.
[xxxv] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.167.
[xxxvi] Idem, pg.168.
[xxxvii] La contraddittorietà logica ed ontologica di una visione “dualistica” del mondo, di stampo gnostico-manicheo, fu confutata già da S.Agostino con la sua dottrina riguardante la spiegazione dell’esistenza del “male”! Ricordiamo come tale dottrina insegni che il male non può considerarsi né come “essere” (perché in tal caso esso sarebbe positivo) né tanto meno come “non-essere” (perché semplicemente non sarebbe), ma piuttosto come “privazione, assenza di essere”. Pertanto, non essendo un principio che abbia consistenza in sé stesso, il demonio non può nemmeno assumersi quale “creatore” di alcunché, ma solo come sintomo di “degradazione”!
[xxxviii] Leone XIII, Lett. enc. Libertas praestantissimus; Leonis XIII Acta 8, 219. Cfr. Catechismo della C.C., 1954.
[xxxix] S.Tommaso D’Aquino, Summa theologiae, I-II, q.93, a.3, ad 2. Cfr. Catechismo della C.C., 1902.
[xl] Catechismo della C.C., 1955.
[xli] Cfr, per esempio Gaio, Institutiones I, 1.
[xlii] M.Polia, Imperium, Ed. Il Cerchio, Rimini 2001, pg.20.
[xliii] Cicerone, De re publica, 3, 22, 33.
[xliv] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.105 sg.
[xlv] Catechismo della C.C., 1960.
[xlvi] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.55.
[xlvii] Cfr. Rm 13,1-2.
[xlviii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.54 sg.
[xlix] Idem, pg.85.
[l] Idem, pg.5.
[li] Idem, pg.99.
[lii] Catechismo della C.C., 1920.
[liii] Idem, 1901.
[liv] L’umanità è al bivio, op.cit.
[lv] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.149.
[lvi] Idem, pg.83.
[lvii] Idem, pg.56.
[lviii] Idem, pg.87.
[lix] Catechismo della C.C., 820.
[lx] Cfr. Lo Stato e La Chiesa, op.cit.,pg.57.
[lxi] Idem, pg.58.
[lxii] Catechismo della C.C., 158.
[lxiii] Idem, 949.
[lxiv] Idem, 2614.
[lxv] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.120.