sabato 6 ottobre 2007

Fede cattolica, laicità e laicismo (adversus G.Zagrebelsky)



Di Cosmo Intini
(Prima Parte)



E’ apparso recentemente in edicola, con il quotidiano La Repubblica, un volumetto dal titolo Lo Stato e La Chiesa:[i] una raccolta di tredici articoli firmati dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, tutti già in precedenza pubblicati singolarmente, nel corso di alcuni anni, ed incentrati sul controverso tema dei rapporti tra laicità e fede cattolica.
La riproposizione assembrata di tali articoli, in maniera segnatamente sincronica con la “Giornata della Famiglia” (12 maggio 2007) e, più in generale, con la discussione politica in atto sulla legge riguardante i cosiddetti “Dico”, ha manifestato una volta di più, con puntuale evidenza, l’usuale intento laicista di inserirsi nel dibattito tra le parti adottando quale univoca strategia la “delegittimazione della gerarchia ecclesiastica”. Che è come dire: ammantare di legittimo diritto di opinione quella che è in realtà un’illegittima (perché mirante a sovvertire l’autorità della Chiesa cattolica) manifestazione di intolleranza anticlericale!
Aver riconosciuto da parte nostra l’opportunità di parlarne non deriva quindi tanto dalla novità (né tanto meno da una seppur minima validità) delle argomentazioni propugnate da Zagrebelsky, quanto piuttosto dal ritrovare in tale pubblicazione de La Repubblica una sintesi pressoché compiuta di tutti i “cavalli di battaglia” su cui il laicismo fonda la sua sempre maggiore aggressività. Consapevoli infatti che l’intimidazione in atto contro il Vaticano celi al suo interno un ben più ampio ed articolato progetto anticattolico (checché ne dica Zagrebelsky), sulla cui consapevole metodicità non vi è oramai più ombra di dubbio e che pertanto non si fa fatica a definire pure “anticristico”, ebbene ringraziamo allora il direttore Ezio Mauro per l’occasione propiziataci con il riunirci, in un comodo unico colpo d’occhio, quanto è necessario confutare in maniera altrettanto consapevolmente metodica!!
D’altra parte, riteniamo pure che tali confutazioni non siano sufficienti ad esaurire la complessità dei punti inerenti a siffatte problematiche, ma che sussista la necessità di ben più larghe riflessioni! Necessità che insorge per noi in maniera ancor più stringente allorquando osserviamo infatti che alcune obiezioni alla Chiesa cattolica - quelle rivolte in special modo alle persone della Sua gerarchia - vengono oramai mosse sempre più frequentemente anche da parecchi degli stessi cattolici laici; e ciò conseguentemente ad alcune prese di posizione o ad alcuni atteggiamenti assunti dalla gerarchia, che a volte viene stimata come “moralmente poco esemplare” se non addirittura, diciamo così, “poco in sintonia con la dottrina stessa”.

Ma vediamo di puntualizzare alcuni fondamenti su cui costruire un discorso!
Vi sono tre motivi che, in vario modo, possono spingere ad opporsi all’Autorità gerarchica sacerdotale, venendo meno per questo a quella “obbedienza della fede” evocata dall’Apostolo delle genti (cfr. Rm 1,5; 16,26): essi sono il dubbio, l’incredulità e la malafede. Un caso a parte è costituito, invece, intanto dai cristiani ortodossi, che in certo qual modo si oppongono solo parzialmente alla gerarchia vaticana - cioè solo per quel che riguarda ad esempio il “primato” del suo primo Vescovo: il Papa -, in nome questa volta di una “interpretazione dottrinale della fede” più che per “disobbedienza”. E poi va citato pure tutto quel tradizionalismo cattolico che, sempre senza rinnegare l’“obbedienza della fede”, ad ogni modo critica fortemente la gerarchia accusandola di “clericalizzazione” o di eccessivo “ecumenismo”. Questi ultimi due casi non costituiranno però, per questa volta, l’oggetto delle nostre riflessioni!
Comunque sia, pur partendo da presupposti chiaramente irriducibili fra loro, tutti quanti giungono paradossalmente a conclusioni simili nella sostanza: il “disaccordo” - più o meno parziale quando non proprio assoluto -, l’“insofferenza” - più o meno blanda quando non proprio rancorosa - con la gerarchia vaticana!
Volendoci dunque soffermare soltanto sui primi tre casi, possiamo dire che alla prima condizione sono da ricondurre tutti coloro che pur riconoscendo, in quanto fedeli battezzati, le “basilari verità di fede” tuttavia giungono ad “ignorarle”, ossia a trascurarle (volontariamente o involontariamente), perché colti dal dubbio ed essendo oltretutto incapaci, appunto per “ignoranza”, di superarlo. Alla seconda, invece, appartengono tutti coloro i quali, misconoscendo le “basilari verità di fede”, si rifiutano di concedere ad esse il proprio assenso. Nella terza, infine, ravvisiamo quanti falsano consapevolmente il significato delle “basilari verità fede”, tentando addirittura di sovvertirne l’essenza e di sostituirle falsificandole con surrogati e pseudotipi.
Se la malafede è già per definizione ciò che è contrario alla “verità”, e se l’incredulità è ciò che è contrario alla “fede”, da parte sua il dubbio è ciò che è contrario alla “fede vera” quand’anche spesso venga accompagnata dalla cosiddetta “buona fede”.[ii] Molti cattolici (o pseudo tali) sono infatti ingenuamente convinti - perché portati ad esserlo dall’“errore” - di possedere la libertà ed il diritto di adattare a sé stessi le “verità di fede”, rimodellandole e accomodandole alle proprie convinzioni, oltre che a proprio piacimento e convenienza. In tutti e tre i casi, ed in maniera analoga, seppur con diverso grado ci troviamo sempre e comunque al cospetto di un servigio reso non a Cristo Gesù, ma piuttosto al Suo nemico! Non ha forse Egli detto: “Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me. Chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10,16)?

Ma quali sono le “basilari verità di fede” a cui abbiamo sin qui alluso? Pur essendo esse note, è evidentemente necessario ed utile ribadirle: repetita juvant!
La prima a rivestire un ruolo fondamentale, nel contesto del discorso che ci siamo qui proposti di effettuare sui rapporti tra fede cattolica, laicità e laicismo, è quella verità secondo cui la S.Chiesa romana e cattolica, la Chiesa di Pietro, detiene un “primato” che ha ricevuto direttamente da Cristo Gesù; e ciò nella persona del Vescovo di Roma, il Sommo Pontefice: Suo Vicario nonché Successore di Pietro (cfr. Mt 16,18-19; Gv 21,15-17).
La seconda verità è che la medesima Chiesa, attraverso l’amministrazione dei sacramenti svolta da parte dei Suoi ministri, è costantemente edificata, animata e santificata dallo Spirito Santo.[iii]
La terza verità è che sempre la stessa Chiesa, in conformità con quanto affermato nel Simbolo niceno-costantinopolitano, è “una, santa, cattolica ed apostolica”: attributi questi che Essa non si concede da sé, ma che Le sono conferiti ancora una volta direttamente da Cristo Gesù e sempre per mezzo dello Spirito Santo.
Da questi tratti essenziali si desume l’“ineluttabilità” per la Chiesa di ritrovarsi costituita quale “unico” spazio in cui la “santità” della comunione con Dio può avvenire “cattolicamente”, ossia “universalmente ed in maniera eguale” per tutti quanti gli uomini (purché aderiscano ad Essa), in forza e virtù della Sua missionarietà “apostolica” che si basa sulla testimonianza e trasmissione del Vangelo. La condicio sine qua non che convalida tali attributi in maniera permanente è l’amministrazione dei sacramenti da parte dei Suoi “ministri” (nonché ovviamente la partecipazione ad essi da parte dei fedeli), con la particolare e fondamentale convergenza nell’Eucaristia!
Un altro aspetto che consegue al sussistere di tali basilari verità di fede (ed il non riconoscerlo, il non adeguarvisi implica la mancanza della fede stessa) consiste nel fatto che la Chiesa non può essere considerata alla stregua di una pura e semplice associazione di persone unite fra loro da comuni obiettivi, da medesimi strumenti e mezzi adatti al loro conseguimento, da affinità comportamentali di ordine morale, intellettuale e pratico. In una parola: solamente una struttura visibile, collocabile indifferentemente fra molte altre!
Per il fedele cattolico è irrinunciabile il cogliere nella Chiesa, accanto ad una realtà “visibile”, anche quella “invisibile e spirituale” imbevuta della vivente presenza cristica! Per maggior precisione, proprio alla luce di tale Sua duplice natura ontologica, peraltro solo apparentemente dicotomica, la Chiesa non va tanto confusa con la “salvezza” in sé stessa, ma piuttosto va considerata come lo spazio necessario, solamente entro il quale la salvezza è realizzabile. “Nel Simbolo…professiamo di credere la Santa Chiesa (Credo Ecclesiam) e non nella Chiesa, per non confondere Dio con le Sue opere e per attribuire chiaramente alla bontà di Dio tutti i doni che Egli ha riversato nella Sua Chiesa”.[iv]
Seppur oppressa nei Suoi membri - compresi i ministri - da tentazioni ed afflizioni e pur abbracciando nel proprio seno dei peccatori, la vita della Chiesa è in effetti quella della grazia: ed è questo ciò che La rende “comunque santa”! Tale verità, alla luce della quale Essa risulta essere “senza peccato, fatta di peccatori”, è pertanto ciò che rende inammissibile qualunque delegittimazione che tenda a rompere la coincidenza tra le suddette due realtà visibile ed invisibile, umana e divina. “O umiltà! O sublimità! Tabernacolo di Cedar, santuario di Dio; abitazione terrena, celeste reggia; dimore di fango, sala regale; corpo di morte, tempio di luce; infine, rifiuto per i superbi, ma sposa di Cristo! Bruna sei, ma bella, o figlia di Gerusalemme: se anche la fatica ed il dolore del lungo esilio ti sfigurano, ti adorna tuttavia la bellezza celeste”.[v]

Agli imprescindibili punti fermi appena ricordati vanno aggiunte ancora due preventive precisazioni terminologiche. Per prima cosa, bisogna dire che con il termine “laici” sono da intendersi inequivocabilmente “tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti popolo di Dio,…compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano. L’indole secolare è propria e peculiare dei laici”.[vi] La parola “laico”, derivando etimologicamente dal greco “laos”, significa per l’appunto “ciò che è del popolo”. Tanto nella traduzione dei Settanta dell’A.T. quanto nel N.T., con questo termine greco si è sempre inteso indicare, in senso particolare, “i cristiani che non facevano parte del clero, della classe sacerdotale”, ovvero pure, questa volta in senso lato, “coloro che non erano pagani: ossia i fedeli di Cristo”. Del resto, il termine “laico” compare nell’uso cristiano per la prima volta nel 96 d.C. con Clemente Romano, per qualificare appunto il semplice fedele, a differenza del diacono e del presbitero. Tutto ciò basta insomma a far comprendere non solo quanto sia errato l’uso dell’attributo “laico” ponendolo in opposizione o quantomeno in alternativa a “cattolico”, così come oggi avviene invece per prassi diffusa persino tra i cattolici stessi; ma anche quanto il reale significato di tale termine sia stato letteralmente ed in maniera subdola sovvertito, andando sempre più a riferirlo a qualcosa che sia avulso, che prescinda dalla religione cristiana in senso lato! Anche questo fa parte certamente del maligno processo di “degerarchizzazione” che, innescato dalla Riforma protestante e proseguito con la democraticizzazione massonica della società, oggi risulta in piena spinta iconoclastica, ed il cui scopo è sintetizzabile nella massima anticristica: “appropriarsi, sovvertire, sostituirsi”!
Un ulteriore tipico esempio di tutto ciò - grazie a cui ci è permesso peraltro di operare l’annunciata seconda puntualizzazione terminologica - è costituito proprio dal termine “gerarchia”; il quale ha subìto dal ‘500 ad oggi, non senza la solita colpevole responsabilità protestante e massonica, un progressivo processo di secolarizzazione, di modernizzazione, che ha portato a distorcerne il senso vero, proprio ed originale. L’opinione comune pertanto, sempre meno attenta a cogliere le falsificazioni ideologiche metodicamente operate ai danni della Chiesa cattolica - falsificazioni che del resto sono ancora in corso d’opera -, è stata condotta a convincersi della presenza, nel concetto di “gerarchia”, di una sfumatura peggiorativa che l’ha ridotta a sinonimo di dispotismo, totalitarismo, autoritarismo. Si sa bene, invece, che con “gerarchia” (dal gr.“hiera-archeia”) si traduce propriamente “corpo, assemblea, collegio, autorità di chi è a capo delle funzioni sacre”! Il termine, inusitato nell’antichità, fu introdotto in ambito cristiano soltanto nel VI sec. dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, che lo innestò sul preesistente concetto neoplatonico di “ordine” (taxis). Secondo la definizione operata da tale importante Padre della Chiesa, la “gerarchia ecclesiastica” è insomma una strutturazione che non dipende da una ‘diversità di natura’, ma è piuttosto connessa alle funzioni ‘per il posto, il grado di conoscenza e l’azione che si esercita’. Essa indica oltretutto non già una semplice organizzazione, un insieme di ordini e funzioni solamente obiettivi ed esteriori, ma è manifestazione ‘graduale’ del divino, a sua volta generatrice di conoscenza e santità, un ‘movimento’ divinizzatore caratterizzato soteriologicamente. Lo Pseudo-Dionigi specifica infatti, ripreso in questo anche da S.Tommaso, che “i Vescovi manifestano in modo unico e dottrinale tutto ciò che Dio ha detto, fatto e svelato, ogni detto e azione santa. Infatti il Vescovo imitatore di Dio non solo è illuminato nella scienza vera tramandata da Dio, ma anche le tramanda lui stesso agli altri”.[vii]
La gerarchia non gode quindi di “egemonia” - da cui scaturirebbe l’altrui “subordinazione” - bensì di “preminenza ed eccellenza”.[viii] E su tale medesima linea si pongono del resto coerentemente gli assunti del Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove si afferma che tra “gerarchia, laici e stato di vita consacrata” - il cui insieme costituisce la tripartita suddivisione dei fedeli in Cristo – “…in forza della loro rigenerazione in Cristo sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno…C’è nella Chiesa diversità di ministeri, ma unità di missione”.[ix]

Stabilite così queste doverose premesse, diviene allora più semplice evidenziare la pretestuosità delle posizioni laiciste, così come riassunte e al meglio rappresentate dagli articoli di Zagrebelsky!
E’ facile notare innanzitutto quanto l’artata, nonché del tutto impropria e gratuita differenziazione ontologica operata tra “laici e credenti”, che egli dà invece per assiomatica,[x] non tenda ad altro che proprio a delegittimare la Chiesa; con lo scopo, per contro, di legittimare, ossia di far assurgere a norma e quindi a normalità, quanto per la Chiesa dei fedeli in Cristo rappresenta in realtà piuttosto un’“eccezione”: la “mancanza della fede”! In quanto obbediente al tipico modus operandi anticristico il “laicista”, dopo essersi appropriato dell’attributo di “laico”, lo sovverte per usarlo come grimaldello con cui scardinare quello che da sempre si costituisce come il naturale rapporto tra gerarchia e “legittimo laicato”. Zagrebelsky infatti si appella furbescamente alla Gaudium et Spes (II,IV,76) del Concilio Vaticano II ed alla Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede sul tema dell’“impegno e del comportamento dei cattolici nella vita politica” (24/11/2002), proprio per affermare come venga riconosciuta anche dalla Chiesa l’assoluta “autonomia e indipendenza” dello Stato rispetto ad Essa.[xi] Ne deriverebbe pertanto che la gerarchia pecchi di arrogante autoritarismo, oltre che di contraddizione, ogni qual volta intervenga a far valere il peso del proprio giudizio morale sull’articolazione pratica delle scelte politiche dei laici.
Orbene, se è effettivamente vero che la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes riconosca che “…la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo”; è altrettanto vero che essa aggiunga come, per la Chiesa, “…sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l'ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime”(II,IV,76). Zagrebelsky, non fosse altro che per mostrare la propria coerenza con l’ideale democratico di cui è fervente assertore, non si azzarda certo a negare alla Chiesa il diritto di intervenire per “ricordare la dottrina ai suoi credenti”.[xii] Eppure, egli cade in contraddizione già quando, dopo aver mostrato risentimento per il fatto che la CEI abbia rivolto ai cattolici l’invito ad astenersi dal partecipare al referendum riguardante la “procreazione medicalmente assistita” (giugno 2005), accusi pertanto la stessa CEI di dubbia “moralità politica”.[xiii] Secondo lui, infatti, quest’invito all’astensione assume una connotazione appunto politica, un’arma attraverso cui viene consumata un’ingerenza illegittima che lede l’autonomia della sfera civile e politica rispetto a quella religiosa ed ecclesiastica. In realtà, ciò di cui egli ipocritamente non tiene conto (tant’è che si guarda sempre bene dal citarlo) è quanto affermato in un altro capitolo dalla medesima Gaudium et Spes, laddove è specificato: “…molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze. Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d'autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore…Se invece con l'espressione ‘autonomia delle realtà temporali’ si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni” (I,III,36). Qui si parla insomma di “autonomia politica” da una parte, ma non di “indipendenza morale” dall’altra! Né vi è pertanto “contraddizione” nel comportamento della gerarchia!
In altre parole, Zagrebelsky - e qui siamo al palesarsi del terzo stadio del modus operandi anticristico - pretenderebbe di sostituire i contenuti dei normali rapporti gerarchia-laicato con quelli stabiliti invece dal laicismo, con il pretesto di un’autonomia e di un’indipendenza reciproche che però non corrispondono affatto a quelle pur tuttavia riconosciute dalla Chiesa allo Stato. La perfidia sottile di questo gioco affiora d’altro canto laddove egli arriva a stabilire una preconcetta divisione, una fratturazione dei credenti laici, per la qual cosa (egli suggerisce o auspica?) essi possano essere scindibili in cosiddetti “cattolici clericali e cattolici democratici”!![xiv] Con ciò, insomma, non soltanto risulta perpetrata la totale confusione tra “autonomia ed indipendenza politica” da una parte, e “autonomia ed indipendenza morale” dall’altra, ma viene pure rinforzato il sospetto che tale confusione operata dai laicisti non insorga del tutto inconsapevolmente, in quanto essa pare farsi implicita promotrice del tentativo di “dividere” i cattolici! La suadente affermazione, infatti, secondo cui il credente-clericale sia intellettualmente “immaturo”, mentre il credente-democratico sia intellettualmente “adulto”, contiene la lusinga secondo la quale il maggior merito consiste nel difendere la loro propria dignità “…di soggetti, non di oggetti, come si dice, ‘in re’ ”[xv], dalle ingerenze gerarchiche. A parte la del tutto gratuita impostazione nel distinguere tali due categorie (cattolici lo si è per fede nella realtà spirituale e invisibile della Chiesa, e non solo per appartenenza ideologico-confessionale alla Sua realtà storica e visibile!), non è nemmeno concedibile in alcun modo voler creare un assioma secondo cui il cosiddetto cattolico-democratico sia qualitativamente “più laico” di un cosiddetto cattolico-clericale. E’ il Magistero stesso che insegna l’unitarietà e l’integralità della coscienza e della morale dei fedeli laici:”…non possono esserci due vite parallele: da una parte la vita cosiddetta ‘spirituale’…e dall’altra la vita cosiddetta ‘secolare’…Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno concreto…sono occasioni provvidenziali per un ‘continuo esercizio della fede, della speranza e della carità’ ”.[xvi]
Ma il tentativo di “dividere” non si limita a venir effettuato nei confronti solo dei rapporti interlaicali! Zagrebelsky, difatti, intanto comincia con il tessere i laicistici elogi della spinta “modernista” che gli pare di poter scorgere nella “grande riflessione del Concilio Vaticano II che tanta speranza aveva suscitato”:[xvii] quel Concilio che ha riconosciuto ai laici appunto la “dignità di soggetti”[xviii] ed era stato “salutato come un segno provvidenziale che riconduceva la Chiesa alla sua funzione evangelizzatrice e l’alleggeriva delle compromissioni col potere politico che, per non dire di più, l’hanno appesantita e intorpidita nel corso di duemila anni della sua storia”.[xix] Dopodichè, lasciando intendere più o meno esplicitamente la delusione per la presunta “dimenticanza” in cui sarebbero caduti oggi i “buoni propositi conciliari” della Chiesa,[xx] egli, nel corso di un incontro recentemente tenuto a Torino sul tema “Non possumus: la Chiesa divide la società?”, così tiene a precisare: “…quando si parla di Chiesa, purtroppo, si semplifica troppo. La Chiesa è per fortuna fatta di tante cose,…(e proprio per questo) io mi permetterei di chiedere al mondo cattolico che in queste posizioni (ossia, quelle più radicali della Chiesa, N.d.A.) non si riconosce, di non tacere e di venire fuori con una voce più chiara ”.[xxi]
Mentre incidentalmente non possiamo non notare quanto quest’accusa di “difetto di modernismo” vada curiosamente in senso diametralmente opposto a quella contemporaneamente formulata invece da certi “tradizionalismi”, i cui fautori tacciano al contrario la gerarchia postconciliare di “eccessivo modernismo”, vogliamo piuttosto rimarcare quale logica si delinei in definitiva nelle parole di Zagrebelsky: un chiaro invito rivolto ai cattolici laici a disobbedire all’autorità della propria gerarchia! D’altro canto, tale invito ricompare anche altrove, e nemmeno più tanto velato; laddove egli afferma ad esempio esplicitamente che “le libertà provengono piuttosto dalla contestazione dell’autorità della Chiesa”![xxii] O dove ironizza, sminuendo l’odierna concezione laica dei cattolici col definirla una “…nota nostalgica per un’epoca forte e sana in cui i vincoli morali di appartenenza e obbedienza…erano dati a priori”.[xxiii] In ogni caso, con un’ennesima forzosa parificazione di cittadini-laici e cittadini-laicisti, auspica che “…ci sono questioni sulle quali anche da parte dello Stato democratico dovrebbero essere detti dei ‘non possumus’. Ci sono principi irrinunciabili di laicità e democraticità delle istituzioni che sono non negoziabili”.[xxiv] E poi sarebbero i “non possumus” della Chiesa a voler sovversivamente “dividere” la società, istigando i cristiani alla “disobbedienza civile”!![xxv]
E’ quasi pleonastico ricordare che aspirare alla “divisione” è un sintomo di carattere “maligno” (il verbo greco “dia-ballo”, che traduce “disunire, metter male tra due, calunniare, screditare, rendere odioso”, è proprio quello da cui deriva il sostantivo “diabolus”): ancor più, poi, quando la “divisione” subdolamente aspiri alla “mutilazione” del Corpo mistico del Cristo, facendo addirittura leva, in maniera blasfema, sulla Sacra Scrittura! Citando infatti la parabola del “giovane ricco” e poi l’episodio delle “tentazioni di Gesù nel deserto”, Zagrebelsky insinua che “lo spirito evangelico dell’uguale dignità dei figli di Dio” possa dar adito a legittime aspirazioni di rivolta all’autorità da lui definita “autocratica” della gerarchia. Secondo lui, la verità è che “…il Cristo non obbliga nessuno…Nessuna sanzione colpisce chi rifiuta la chiamata, se non un poco di tristezza (Mt 19,23; Mc 10,22; Lc 18,23). La conversione è, per antonomasia, l’atto di libertà della coscienza…Nella grande tentazione satanica del deserto (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13), egli (Gesù) rifiuta la coercizione delle coscienze: rifiuta il comando che costringe, il miracolo che seduce, i beni materiali che corrompono” .[xxvi] A tutto ciò è giusto rispondere che è certamente vero che l’uomo gode di quella libertà donatagli da Dio, denominata facoltà del “libero arbitrio”! Tuttavia l’avvertimento di Cristo Gesù è chiaro:”Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a lui solo” (Mt 4,10; Lc 4,8). Il che significa che diventa il proprio “signore” colui al quale si sceglie “liberamente” di obbedire: se non si obbedisce alla Chiesa del Signore, si diviene automaticamente servitori del “principe di questo mondo”! Ed oltretutto, infatti, “nessun uomo può servire a due padroni…Non potete servire a Dio ed a mammona” (Lc 16,13).
La Chiesa non obbliga nessuno: ma non può nemmeno acconsentire a chi voglia obbligare Lei. E’ del tutto calunnioso ed in malafede accusarLa di rimaner vittima delle medesime suddette tentazioni sataniche,[xxvii] quando non addirittura costituire proprio Lei “una bestemmia dal punto di vista del messaggio di Gesù di Nazareth”,[xxviii] ogniqualvolta Essa mostri di rimanere coerente con la propria identità cattolico-apostolica - da Zagrebelsky confusa con qualcosa che ama denominare “religione civile” -, e che oltretutto Essa inviti ad aderire a tale Sua “identità”. Soprattutto, poi, perché Zagrebelsky mostra di essere consapevole del fatto che “…il Cristianesimo non è solo istituzione mondana”.[xxix] Eppure l’errore nasce dal fatto che egli “separa, divide” (una volta di più!) la realtà invisibile della Chiesa da quella visibile: “…la riduzione dell’uno (Cristianesimo) all’altra (istituzione mondana) ucciderebbe lo spirito cristiano, espressione della parola divina trascendente ogni concretizzazione storica. Lo spirito cristiano non è una cultura dominante, una scala di valori temporali definita o una forma politico-culturale realizzata. Addirittura non può nemmeno mai identificarsi pienamente con un’organizzazione confessionale, una chiesa o una ‘comunuione di santi’ storicamente determinate. Sarebbe comunque riduzione mondana, culturale, etica, politica o chiesastica, nella quale il finito pretenderebbe di costringere l’infinito. Una tale riduzione ucciderebbe la speranza nello spirito e la Chiesa…Il Cristianesimo è ‘spada che divide’ il mondo (Mt 10,34-35; Lc 12,51-53); è ‘dal mondo’ ma non ‘del mondo’ (Gv 15,19). Il Cristianesimo come ‘religione civile’ sarebbe una confusione letteralmente anti-cristiana. Il messaggio di Gesù Cristo diventerebbe un’ideologia come un’altra, un collante sociale ambiguo e mellifluo, al servizio di ordinamenti costituiti”.[xxx]

Qui si apre insomma tutta una riflessione sul concetto di “identità”, sul suo reale significato e sulle sue dirette implicazioni con i concetti di “libertà” e di “verità”!
Intanto va subito smontata l’apparente contraddizione che sussisterebbe con quanto detto poc’anzi a proposito della “diabolicità di ciò che divide”. Riferendosi infatti al Cristo “venuto sulla terra a dividere”, i verbi greci usati da Mt (10,35) e da Lc (12,51-53) per designare tale Sua azione sono rispettivamente “dichazo” e “diamerizo”. In maniera concettualmente analoga il primo traduce “dividere in parti, spartire, distribuire”, mentre il secondo traduce “dividere in due metà”. In altre parole - al di là del senso più immediato alluso nei passi evangelici citati, secondo cui la sequela di Cristo Gesù comporta la rinuncia a questo mondo - il salvifico messaggio evangelico non “divide”, ma più propriamente “distingue”: distingue tra la Verità e l’errore, tra il Bene ed il male, tra l’amore e l’odio. In base a tale constatazione è del tutto errato quindi considerare il cristianesimo, o per meglio dire quanto di “infinito” è insito nel messaggio di Cristo, in alterità o addirittura in opposizione con quanto di “finito” è proprio dell’Istituto storico della Chiesa. In realtà entrambi, messaggio di Cristo ed Istituto storico della Chiesa, si costituiscono come “due metà”, fra loro compenetrate, di una medesima realtà! E ciò per il medesimo “mistero” che è alla base del fatto che “Dio si è fatto uomo”! Altra cosa è in definitiva l’azione del “diaballein”, che è quanto vorrebbe proporre invece Zagrebelsky - e che tanto gli piacerebbe fosse vero - allorché afferma essere la Chiesa soggetta ad una “dualità”, rinnegando la cui evidenza Essa compirebbe un “peccato contro lo spirito”!![xxxi]
Cosa si riduce ad essere dunque, per il laicista, l’“identità” cristiana?
Come dicevamo, il subdolo tentativo insito nella pretesa di scindere il messaggio di Cristo Gesù dalla realtà storica della Sua Chiesa, tenta in ultima analisi di insidiare la stessa verità secondo la quale “Dio si è fatto uomo ed è sceso nella storia”. Ora, il Magistero insegna come niente sia più anticattolico del concetto per cui “si deve negare ogni azione di Dio sugli uomini e sul mondo”;[xxxii] e pertanto la “storia” non può essere concepita come un qualcosa di assolutamente “indipendente” da Dio. Tuttavia, per cautelarsi da una possibile caduta in fallaci posizioni di tipo “immanentistico, panteistico” o tanto meno “naturalistico, razionalistico”, la lettura di fede più opportuna afferma che certamente “Dio trascende il mondo e la storia”[xxxiii], ma che ad ogni modo Egli è pure “Signore del mondo e della storia”,[xxxiv] e che attraverso la concreta ed immediata sollecitudine della divina Provvidenza Egli “…si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia…(esercitando) la sovranità assoluta sul corso degli avvenimenti”:[xxxv] persino l’azione malvagia di satana è in certo qual modo “permessa” dalla divina Provvidenza, la quale “…guida la storia dell’uomo e del mondo con forza e dolcezza. La permissione divina dell’attività diabolica è un grande mistero, ma ‘noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio’ (Rm 8,28)”.[xxxvi]
La storia del mondo come “esplicazione” del progetto di Dio, che è ciò che pone al suo culmine l’“Incarnazione del Verbo” cronologicamente centrata tra i due estremi costituiti da “Creazione e Parusia”, alla luce della fede non può pertanto considerarsi alienabile dall’identità stessa dei cristiani: pretenderlo da essi è volerli forzare a rinnegarsi! Eppure è proprio questa la pretesa laicista allorché contesta l’identità cristiana dell’Europa; insinuando per di più che la gerarchia, attraverso il forzoso comune riconoscimento di tale concetto, si proponga in realtà di incoraggiare velleità di nazionalismo etico,[xxxvii] o addirittura pensi ad un “…Cristianesimo come religione civile, come strumento di governo”![xxxviii]
Il fatto che l’Europa abbia “tralignato” sempre più dalle proprie radici, non significa certo che tali stesse radici non rimangano ancora e sempre, nonostante tutto, quelle sue proprie! Zagrebelsky non può infatti negare che ancora oggi la peculiarità dell’identità europea debba riconoscersi come proveniente sia dal concetto “sociale e politico” della polis del mondo greco, sia dal concetto “giuridico” del mondo romano, sia, finalmente, dal concetto concernente i “rapporti fra persona e realtà”, stabiliti nel corso dei mille anni dell’era medievale sulla base del fondamento metafisico della persona stessa e quindi della sua unicità e della sua libertà, che proprio il Cristianesimo ha definito nella “Dottrina sociale” quale riepilogativa elaborazione di un “distillato” di valori, tratti dalle originali intuizioni della civiltà appunto greco-latina! E’ pertanto assolutamente falso quello che Zagrebelsky afferma quando vorrebbe pretendere che, “se volessimo cercare una radice della cultura europea alla quale tenerci stretti, la troveremmo probabilmente non nel Cristianesimo come tale,…ma nella sua dualità rispetto all’autorità civile”.[xxxix] Ciò è falso e tendenzioso, insomma, non solo perché dimostra di volutamente ignorare il carattere sacrale palesemente posseduto dal Sacro Romano Impero e dalla regalità cristiano-medievale in genere, ma anche in quanto costituisce ancora una volta il tentativo di insinuare la sussistenza di una “fratturazione”, di un antagonismo, di un “dualismo” piuttosto che di una “complementarietà”!
Nel momento in cui poi Zagrebelsky si domanda retoricamente “…se l’identità sia un fatto oppure…un’elezione”,[xl] ed eccepisce ironicamente che,”…come se non potesse essere altrimenti, la si assume come fatto o, meglio, insieme di fatti, cioè storia”, ebbene egli dimentica che l’“identità” non è solamente, come lui dice, “un modo per dire ‘carattere essenziale’ ”[xli]. L’“identità”, a meno di limitarne clamorosamente la completezza dei precipui significati, comporta infatti, anche e soprattutto, l’“uguaglianza completa ed assoluta”; essendo essa il “principio logico in base al quale ogni concetto risulta essere identico a sé stesso”! Di modo che, quando egli afferma che “…per la tradizione moderna, che inizia col Rinascimento, la prospettiva si rovescia”,[xlii] e che pertanto “…tutto può sempre essere rimesso in discussione”,[xliii] ebbene egli non pone tanto un’obiezione al riconoscimento di un’identità cristiana dell’Europa, ma, facendo “di tutte le erbe un fascio”, piuttosto prospetta come auspicabile l’annichilimento di un qualsiasi vero “senso di identità”, di qualunque legittimo “saldo punto di riferimento” posto - una volta per tutte, uguale per sempre - quale base ontologica di una qualsivoglia personale “identità”! E con questa rinuncia alla facoltà ed alla capacità di “identificarsi”, cioè alla prerogativa di “poter riconoscersi e farsi riconoscere”, egli si fa il più efficace cooperatore di quelle ideologie globalizzanti che sovvertono il senso dell’“identità” così come la si è sin qui delineata, portandola a degradarsi da proficua “uguaglianza nelle personali, comuni specificità” a perverso “appiattimento nelle spersonalizzate, private varietà”!

Ebbene, risulta chiara a questo punto la possibilità di porre tutto ciò in relazione anche con il concetto di “libertà”!
Zagrebelsky male interpreta quella che, prima ancora che essere una legittima vocazione, è l’ovvia e naturale “disposizione di identità” della Chiesa a svolgere il proprio intrinseco compito cattolico-apostolico: e ciò non solo verso il laico, ma appunto pure verso il laicista e chiunque altro, in quanto parimenti esseri umani e, pertanto, parimenti dotati della naturale dignità ontologica che li qualifica come “persona”! Egli afferma infatti che la democrazia, “orgoglio dell’Occidente”, la quale rappresenta per lui la più ovvia ed alta garanzia di libertà, “…è inconciliabile con la pretesa di una parte, quale che essa sia, di possedere la verità e di imporla a chi non vi si riconosce. Questa pretesa sarebbe non democrazia ma autocrazia”.[xliv] Ed inoltre, pur “concedendo” il suo democratico riconoscimento al diritto-dovere della Chiesa di pronunciarsi su materie rientranti nella giurisdizione dello Stato per enunciare i pertinenti principi cristiani, tuttavia tiene a precisare che “…queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti e, in genere, a coloro che liberamente riconoscono alla Chiesa un’autorità morale”.[xlv] Qui comincia insomma a delinearsi tutta l’ambiguità di un discorso sul concetto di “libertà” che non procede introducendo però, di pari passo, i diretti riferimenti al concetto di “verità” cui esso inevitabilmente dà luogo!
Rimandando al prosieguo una riflessione più diretta su quale sia il rapporto Chiesa-democrazia, qui non possiamo tuttavia tacere almeno la contraddittorietà e la presunzione dell’ideologia laicistico-democraticistica che, mentre da una parte nega l’assolutezza di una qualunque verità retrocedendola “…in un campo che, per sua natura, non è quello delle certezze assolute e necessarie, ma quello delle possibilità…Nessuno può pretendere di possedere la verità. Anzi, l’idea stessa di verità non ha luogo”,[xlvi] d’altro canto è proprio essa che impone assiomaticamente, “totalitaristicamente”, quello che è il proprio modo di vedere, costituendosi quale unico, lecito, più opportuno “regime”: il “…regime delle possibilità sempre aperte”,[xlvii] il “…regime in prima persona, non per interposta persona”,[xlviii] il “…regime delle possibilità da esplorare”[xlix]; un “regime” peraltro fondamentalisticamente considerato “…un modo d’essere irrinunciabile…un insieme di istituzioni necessarie”.[l] E peraltro ciò implica pure la denuncia di tutto quello che a tale “regime” intenda eccepire: “…Non dunque la fede come tale, ma la servitù al dogma religioso, che della fede è la degenerazione, crea problemi per la democrazia”.[li] A tal proposito, è stato felicemente osservato che “…qui siamo nell’assurdo o nel giochetto dei Quattro cantoni per dire ‘Io ho comunque ragione (ho la verità della verità che non esiste) e tu hai torto perché affermi che la verità che hai esiste, mentre deve solo esistere la verità che non esiste verità’ ”.[lii] E del resto è lo stesso Zagrebelsky ad affermare: “La democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa)”![liii] Se questo non è “totalitarismo”!!
In effetti siamo nuovamente al cospetto di un tentativo di fomentare una “ribellione” alla gerarchia, instillando surrettiziamente nei laici la suadente e menzognera convinzione della liceità di una “fede” che possa essere contemporaneamente “incertezza, dubbio”: senza peraltro curarsi della contraddizione in termini a cui questo anomalo connubio “fede-dubbio” darebbe luogo! Dice infatti Zagrebelsky, convincendoci peraltro definitivamente del senso non solo “giuridico”, ma altresì chiaramente “politico” con cui egli intende quel “regime” a cui ha in precedenza reiteratamente alluso: “Di una democrazia come regno (sic!) delle possibilità, il dubbio è la forza efficiente…E qui occorre sfatare il luogo comune. Il dubbio non è condizione esistenziale esclusiva del laico (= laicista, N.D.A.). Chi ha detto che il laico viva di soli dubbi e il credente di sole certezze?”.[liv] Quello a cui Zagrebelsky sta realmente puntando si mostra qui, insomma, ancor più allo scoperto: se la “libertà” è “…non assoggettarsi ciecamente al dogma ecclesiastico”[lv] (primo errore: il dogma non è primariamente ecclesiastico, ma è verità contenuta nella rivelazione divina che il Magistero ecclesiastico semmai riceve e ritrasmette),[lvi] e se, anzi, “…il dubbio è la condizione esistenziale (anche) di chi vive nella fede”[lvii] (secondo errore: il dubbio, sia volontario che involontario, è un peccato contro la fede),[lviii] ebbene, si concluderà logicamente (ma forse è meglio dire “ereticamente”) che esiste una “fede libera” grazie a cui si potrebbe anche non accogliere la “Verità” di Cristo Gesù come certezza (terzo errore, al di là dell’eresia prospettata: la fede non è “libera”, ma è “assenso libero” a tutta la Verità che Dio ha rivelato)!![lix]
Questa anticristica posizione laicista, del resto, al laico non viene solamente proposta, ma viene anche pretesa da lui in nome di una presunta maggior “ortodossa” cristianità! Zagrebelsky cita infatti il Salmo (61,12)[lx] in cui si dice: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite”, per sostenere abbastanza forzatamente la sua affermazione secondo cui possa sussistere una fede basata sul dubbio.[lxi] Per la qual cosa, “…la pretesa dell’uomo, quale sia il posto occupato nella società dei credenti, di ostentare una verità, sostituendo la propria unica parola a quella duplice sussurrata da Dio, può apparire persino blasfema; e l’obbedienza passiva che a essa viene prestata, addirittura idolatra”.[lxii] E a definitivo sostegno di tale autentico sovvertimento di significato e di valore delle parole pure e semplici - ad un certo punto invoca, per esempio, un’inverosimile “coincidenza degli opposti” sussistente tra “dogma e schepsi”[lxiii] -, giunge in conclusione a citare, e qui sì con evidente blasfemia, l’episodio evangelico del dialogo tra Gesù e Pilato (Gv 18,37-38) per assoggettarlo alle proprie posizioni anticristiche ed antiecclesiali: “Come insuperabilmente ha mostrato il giurista e filosofo politico Hans Kelsen, nel commentare il dialogo tra Gesù e Pilato sulla verità…il dogma, piuttosto, è il fondamento dell’autocrazia, mentre la pluralità dei dogmi non è immaginabile che come premessa dell’autocrazia”.[lxiv]
Andiamo per ordine! Innanzitutto è solo la “diabolicità” (=dia-ballo) a voler pretendere di ridurre artatamente la parola di Dio a “duplicità”, addebitandole una caratteristica che è piuttosto propria della “doppiezza” del nemico di Dio! Il passo del Salmo citato, preso nella sua completezza, infatti così prosegue: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: il potere appartiene a Dio, tua, Signore, è la grazia; secondo le sue opere tu ripaghi ogni uomo” (61,12-13). Il tema del Salmo, guarda caso, è proprio la “fiducia” e quindi la “fede” in Dio; e i versi in questione, che si pongono proprio alla conclusione di esso, sottolineano i principi che, lungo la storia di Antico e Nuovo Testamento, hanno guidato i comportamenti di Dio: la potenza e l’amore, cioè a dire la giustizia e la misericordia! Il concetto esposto (ripreso poi peraltro anche da Mt 16,27) è insomma quello del giudizio divino che sarà perentoriamente informato a quanta maggiore o quanta minore “fede” la persona umana avrà avuto in Dio! Non scorgiamo pertanto alcuna traccia di quel “duplice” senso sotto il quale l’uomo, come è nelle intenzioni di Zagrebelsky, possa permettersi di “relativizzare” la Parola di Dio. “Giustizia e Misericordia, Potere e Grazia”, non sono altro che le due facce di una sola e medesima medaglia! Altro che “dubbi”, altro che “…(ascoltare) nell’esperienza della vita la parola di Dio, col tremore di chi teme di non udirla o, avendola udita, col timore di fraintenderne il significato, sapendo comunque misurare l’incommensurabilità della fonte”.[lxv] L’incarnazione del Verbo, del Logos, che è la Parola (scritto con la maiuscola) di Dio, ha già offerto all’uomo la risposta inequivocabile a riguardo di quale sia la “Verità”! Come ponte tra il “commensurabile” e l’“eternità” (più che “incommensurabilità”, non essendo qui questione di grandezze quantitative) il Padre ha posto il Figlio, che è “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6)! E allora: quale alternativa è mai proponibile a ciò che si porge a noi già come assolutezza? Chi o che cosa sia la “Verità” non lo dice Pilato o la turba invocante il “crucifige”; né tanto meno lo stabilisce Zagrebelsky o Hans Kelsen: ma lo afferma Gesù stesso, con il Suo “soltanto apparente” silenzio! Né poteva essere altrimenti!
Nonostante quanto affermato dal costituzionalista, poi, la sua posizione non coincide nemmeno con quella di Kelsen! Ma a che gioco vuol dunque giocare Zagrebelsky?
Osserva infatti S.E. il cardinale Juliàn Herranz, presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi: “Non a caso il massimo esponente del positivismo giuridico, Hans Kelsen, commentando la domanda evangelica di Pilato a Gesù: ‘Cos'è la verità?’ (Gv 18, 38), scriveva che in realtà questa domanda del pragmatico uomo politico conteneva in sé stessa la risposta: la verità è irraggiungibile, perciò Pilato, senza attendere la risposta di Gesù si rivolse alla folla e domanda: ‘Volete che liberi il re dei giudei?’. Agendo così - conclude Kelsen - Pilato si comporta da perfetto democratico: affida cioè il problema di stabilire il vero e il giusto all'opinione della maggioranza, benché egli fosse convinto della completa innocenza del Nazareno”.[lxvi]
D’altro canto, Massimo Adinolfi fa invece notare che: “Nel suo ‘Il crucifige e la democrazia’, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, riprendeva pagine famose di Hans Kelsen, che vale la pena ricordare. C’è Gesù, e c’è Pilato, procuratore romano della Giudea, che lo interroga. Pilato è un relativista scettico abbastanza annoiato, ma anche abbastanza gentile da lasciarsi istruire da Gesù: ‘Quid est veritas?’, gli chiede perciò. Purtroppo Gesù non gli risponde chiaro e tondo. Anzi, non gli risponde affatto. E Pilato, in mancanza della verità, ricorre ad una procedura formalmente democratica: rimette la decisione al voto popolare. Lascia cioè che sia il popolo a decidere quale detenuto rimettere in libertà, com’era usanza, secondo Marco, nei giorni della Pasqua. A quel che dicono i Vangeli, il popolo scelse per acclamazione: ‘Barabba! Barabba!’. Gesù fu così messo a morte. E Kelsen chiosa: questo grido popolare è un forte argomento contro la democrazia. Ma a una condizione: di essere così sicuri della verità da essere pronti a imporla contro il parere popolare. In verità Kelsen scrive: a condizione di essere così sicuri della verità ‘come lo era, della sua, il Figlio di Dio’. Ma quanto Gesù ne fosse sicuro – o quanto pensasse, pur essendone sicuro, che fosse buona cosa imporre la verità – è assai difficile dire, visto che rimase in silenzio. Non entro in dispute esegetiche o teologiche e non dubito che il silenzio di Gesù si ritrovi perfettamente nel modo in cui la Chiesa interpreta ancora oggi il dovere di dire la verità alle pilatesche autorità del nostro tempo. Ma la chiosa di Zagrebelsky al passo evangelico è appunto questa: il vero amico della democrazia non è Pilato, come riteneva Kelsen, ma proprio Gesù. Pilato è solo un opportunista che si appella demagogicamente al popolo, anzi alla folla, per rimanere in sella senza troppe grane. È uno scettico, non crede a nulla e quindi nemmeno nella democrazia, ma sa come servirsene. Gesù ha invece una verità assoluta, ma accetta di tacere per far posto alla parola dell’altro e rendere possibile il dialogo. Gesù dimostra così che fede e democrazia sono compatibili. Che in democrazia non ci sia posto per verità assolute, non significa infatti rinunciare alla propria personale verità, ma essere disponibile a proporla in uno spazio pubblico di civile e reciproco confronto, senza violenza o sopraffazione. Su questi temi Zagrebelsky è tornato nell’incontro organizzato da Libertà e Giustizia all’Unione culturale di Torino (ne ha riferito l’Unità del 21 marzo). Nell’occasione, Zagrebelsky s’è spiegato così: un conto è non credere a nulla, come Pilato, un altro è dare spazio alle credenze di tutti. La democrazia ‘non chiede a nessuno [tantomeno a Gesù] di rinunciare alle proprie convinzioni. Ma partendo da queste, richiede che nel dibattito pubblico i dogmi non vengano fatti valere come tali perché altrimenti le regole della democrazia si inceppano’. Un conto insomma è essere relativista, un altro è che relativiste siano le istituzioni. Per le istituzioni, essere relativiste è un pregio, non un difetto. Col suo silenzio, le accettò persino il Figlio di Dio”.[lxvii]
Dunque, non solo si “tira per capelli” Pilato, procuratore dell’Impero Romano, rendendolo dotato di tanto illegittime - visto il suo incarico - quanto anacronistiche sensibilità democratiche, ma ancor peggio si osa degradare Gesù da Re dei Re a “presidente del consiglio”; e la Sua affermazione “Io sono la Via, Verità e Vita” liquidata quale l’equivalente di un qualunque “programma di governo”! Sbaglia Kelsen affermando che “la verità è irraggiungibile”; sbaglia Adinolfi perché crede che Gesù, con il proprio silenzio, non dia alcuna risposta, ma soprattutto sbaglia nel proferire la bestemmia secondo cui è legittimo dubitare che Gesù non fosse affatto sicuro di incarnare Lui stesso la “Verità”; sbaglia infine Zagrebelsky ritenendo il silenzio (apparente) di Gesù quale Sua apertura al contraddittorio democratico, al relativistico dibattito tra opinionisti!
Colui che invece non sbaglia è S.Agostino! Ricolmo di Spirito, fu lui infatti a “comprendere” che, alla domanda di Pilato “Quid est veritas?” (“Cosa è la verità?”), Gesù non rispose perché la risposta era già implicita nella domanda sottoforma di anagramma: “Est vir qui adest!” (“E’ l’uomo qui presente!). Nell’episodio evangelico in questione assistiamo ad un vero e proprio climax: alle tre domande che Gli pone Pilato, Cristo non dà mai risposte dirette, ma lascia progressivamente intendere che esse siano già comunque contenute nelle parole del procuratore romano! In una sorta di divina “coincidentia oppositorum” – e questa volta lo è per davvero - la domanda è insomma già latrice della risposta; fino al punto che la semplice, limitata e partigiana “parola umana” lascia il posto al silenzio, affinché possa in esso risuonare direttamente l’assoluta, eterna ed universale “Parola di Dio”, nei Suoi modi e secondo le Sue intenzioni. Quale abisso separa questa manifestazione di assoluta Verità, dalla grottesca riduzione di quel “presunto silenzio” ad accettazione di “relativismo”! E’ vero: Gesù non pensa di “imporre” la Verità; ma è per lasciare all’uomo la “libertà” di scegliere tra la “Verità” e l’“errore”. Tace non certamente perché si sottopone al “dialogo”, all’“opinione”, alla “messa in discussione”; ma semplicemente perché Egli ha già detto tutto, ed a quel punto non Gli resta altro che affrontare l’estremo sacrificio redentivo del Calvario! Nulla risponde a Pilato perché lascia ormai a noi la scelta se “rispondere o meno alla Sua chiamata”!
Questa “libertà di scelta”, peraltro, non è ancora la “piena libertà”, ma ne è solamente il presupposto. Come insegna il Magistero “non esiste autentica libertà senza la verità”: “Verità e libertà o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono”.[lxviii] E’ solo il coniugarsi con Cristo-Verità ciò che dà senso alla propria libertà di scelta; tale “comunione” con Cristo è ciò che la giustifica (= la rende “giusta e legittima”) e perciò la nobilita: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32)! “Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l’esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di autentica libertà; e l’ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale ed unilaterale, ogni verità che non penetri tutta la verità sull’uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l’uomo da ciò che limita, menoma o quasi spezza alle radici stesse, nell’anima dell’uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà”.[lxix]
Alla luce di ciò, risulta quindi lampante quanto sia pretestuosa la laicistica accusa, così formulata da Zagrebelsky, di una Chiesa assolutista ed autoritaria in materia di “verità”: “…il relativismo è malattia terminale della nostra società: così dice la Chiesa cattolica, forte della sua verità e della sua autorità. Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà. Relativisti e assolutisti possono solo combattersi”.[lxx] Ed oltretutto si può cogliere una volta di più il sovvertimento anticristico perseguito dal laicismo che consapevolmente “confonde”, per poi rigirare a proprio vantaggio, il carattere spirituale della “libertà Cristica”, riducendola propriamente a puro e semplice “libertinismo umano”! Tant’è che si taccia di “privilegio particolaristico” quella che è la cattolicità, l’universalità della libertà proveniente da Gesù: “…la…libertà…da privilegio di pochi si trasforma in diritto di tutti, generando così uguaglianza. E dall’uguaglianza, democrazia”.[lxxi]

Questo tentativo di ridurre a livello esclusivamente “umano, concreto, materiale” la componente eminentemente “spirituale” della Chiesa, tentativo nel quale si cela il chiaro scopo di giungere alla completa Sua delegittimazione e, conseguentemente, alla Sua distruzione, traspare altresì nell’uso improprio del concetto di “carità” portato avanti da Zagrebelsky! Egli così la definisce: “La differenza tra etica della carità ed etica della verità è irriducibile e capitale. La carità è un concreto rapporto di dedizione che coinvolge e si esprime in concreti atteggiamenti, azioni e rapporti di compassione (nel senso proprio di passione in comune). La verità è un insieme di proposizioni dottrinali che si esprime in codici di credenze e comportamenti astratti…La carità è vissuta; la verità, conosciuta. La carità agisce dall’interno delle coscienze; la verità, dall’esterno”.[lxxii] Proseguendo su questa semplicistica falsariga Zagrebelsky, con vera e propria malizia, tira ancora una volta in ballo Cristo Gesù; ma non per esaltarLo, bensì solamente per affermare quanto la propria concezione della carità sia più aderente, in confronto a quello della Chiesa cattolica, al carattere originale che Cristo stesso ha impresso con i propri atteggiamenti al concetto di “carità”: “L’etica cristiana è etica della carità o della verità? Per Gesù di Nazareth, non c’è dubbio, la carità predomina. La sua predicazione è l’amore concreto. Non risulta che egli (scritto minuscolo, N.d.A.) abbia mai parlato dell’umanità, né che, in campo etico, abbia mai fatto uso di verità generali e astratte. Il suo atteggiamento è tutto compreso nel volgersi ai tormenti da malattie e dolori…Le sue parabole parlano tutte di esseri umani, in carne e ossa,, con i quali si è in rapporto…In effetti Gesù parla bensì talora di verità. Ma questa verità…non è un corpo di dottrine teologiche, filosofiche o sociali. E’ il Cristo stesso…, si è nella verità quando si aderisce fedelmente a lui, perché la verità, in senso evangelico, è la vita secondo il Cristo veritiero, è imitatio Christi…E la Chiesa cattolica?…La fedeltà della Chiesa e della sua azione all’annuncio del fondatore non può sottrarsi a questa verifica”.[lxxiii]
Tali ben congegnati ragionamenti sono in realtà viziati da un disinvolto abuso terminologico e logico, tramite il quale si nega in realtà, già alla base, il senso precipuo affidato da Gesù alla “carità” (e, in sintonia con Lui, anche dalla Sua Chiesa)! La “carità” è notoriamente infatti una delle tre virtù teologali: anzi è “di tutte la più grande”, ricorda S.Paolo (cfr. 1 Cor 13,13). Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, “la carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per sé stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio”.[lxxiv] In maniera tra loro conforme, tutte e tre le virtù teologali si riferiscono insomma direttamente a Dio; ossia dispongono l’uomo a vivere più idoneamente in relazione con la Santissima Trinità: “Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino”.[lxxv] La “carità” (dal gr. charis), non va insomma confusa né con la pura e semplice “compassione o benevolenza”, né tanto meno con la “filantropia o beneficenza”, ma è primariamente “amore per Dio in quanto Verità suprema”: solo come conseguenza di ciò è anche “amore per ogni Sua creatura”. Gesù è chiarissimo su questo: basterebbe soltanto ricordare il passo di Mt 22,37-40! Trascurando di riferirla a Dio, è la “carità” a venir ridotta da Zagrebelsky a “concetto astratto”, cioè a concetto “separato, distinto, che prescinde”: astratto da Dio, appunto!
La poco chiara e discutibile distinzione tra “astrattezza della verità” che si oppone a “concretezza della carità”, intesa questa come sinonimo di “realtà”, deriva invece dalla pretesa tutta laicista di circoscrivere la “carità cristiana” a “virtù umana” e la “verità di Cristo” a “precettistica”: in ogni caso entrambe rimangono erroneamente limitate alla dimensione umana! Dice infatti Zagrebelsky: “La carità si incarna negli esseri umani; la verità tende a stabilizzarsi in istituzioni…La carità sprona alla vita buona, ma rifugge dalle condanne, perdona e riconcilia; la verità, al contrario, formula precetti, commina sanzioni e separa gli eletti dai reprobi…(La carità) ama il ‘prossimo’,…(la verità) ama il ‘popolo’, gli ‘uomini deboli’, ‘l’umanità’; il primo modo di amare è - letteralmente - compassione e compatimento, il secondo è filantropia. L’amore per il prossimo…è rapporto caldo, dedizione vitale; l’amore per l’umanità, atteggiamento freddo, attaccamento a un’idea dominante”.[lxxvi] La confusione di Zagrebelsky è totale! E tale confusione gli deriva non solo dal suo completo “ignorare” quale sia - come abbiamo appena ricordato - l’effettiva posizione del Magistero a proposito della virtù teologale della “carità”; ma oltretutto anche dalla sua artificiosa costruzione teorica che, nell’invocare un supposto “oblìo dello spirito originario evangelico”[lxxvii] patito dall’odierna gerarchia a riguardo di tali tematiche, lo fa giungere ad arguire in maniera contraddittoria: “All’imponente edificio (dottrinale della Chiesa) dà oggi nuovo impulso la rinnovata alleanza fede-ragione, riproposta in termini inversi rispetto a quelli d’un tempo: non più la ragione e, al di là dei suoi limiti, la fede, ma prima la fede e poi la ragione che, sulle verità di fede, costruisce e costruisce ancora, deduttivamente e induttivamente, con pretese di validità razionale generale”.[lxxviii]
Sorvolando sui dettagli troppo facilmente opinabili, a questo punto invece ci chiediamo: ma se così fosse, Zagrebelsky non dovrebbe essere allora in sintonia con la Chiesa? Se, laicisticamente parlando, la “carità” è concretezza e la “verità” è astrattezza, quindi la prima è sintomo di “ragione”, mentre la seconda lo è di “fede”: ne consegue che è la verità a subire in tal caso le limitazioni sancite, “deduttivamente e induttivamente”, da una tirannica pseudocarità che pretende di relativizzarla! Se, come si è già visto, non vi è libertà senza verità, ebbene ne consegue che una carità senza verità è una carità senza libertà: ossia appunto una pseudocarità! E difatti è proprio questo il caso denunciato da Gesù quando si scagliò contro i “sepolcri imbiancati” (Mt 23,27)! Caso che, per contro, viene invece auspicato dal laicismo democratico, buonista e pure filantropico (checché ne dica Zagrebelsky), che con tanta ostentazione erge la pseudocarità a paravento delle proprie ipocrisie!
In realtà il gioco è ancora una volta lo stesso: appropriarsi di un valore cattolico, svuotarlo e sostituirlo con uno pseudotipo! A tal proposito ricordiamo quanto affermato dal Catechismo: “La pratica della vita morale animata dalla carità dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all’amore di colui che ‘ci ha amati per primo’ (1 Gv 4,19)”.[lxxix] Dunque la “carità cristiana”, nella quale si riconosce la gratuita disposizione d’amore dei figli verso il Padre che, sempre per gratuito Amore, ci raccomanda di obbedire, differisce assolutamente dal laicistico “umanitarismo”; il quale è invece l’atteggiamento proprio del “mercenario”: di colui cioè che si “lascia prendere dall’attrattiva della ricompensa”! Dice infatti Zagrebelsky a proposito di quelli che sono i “valori-chiave” del laicismo: “…tolleranza, uguaglianza, diritti, democrazia, ecc. non possono vivere se non sono accettati in una rete di rapporti in cui ciascuno è disposto a dare agli altri quel che pretende per se stesso”.[lxxx] Quanta differenza tra il dettato evangelico di “fare agli altri quel bene che si vuole venga fatto a sé stessi” (cfr. Mt 7,12; Lc 6,31) - in quanto consapevoli che il proprio bene passa in maniera comune attraverso quello altrui - e questa “pretesa che esige”, che mira a garantire piuttosto che l’altrui bene quello proprio personale! Al di là dunque delle belle parole e dei bei proclami, come ben si sa non c’è insomma da fidarsi dei “mercanti” allorché cercano di installarsi nella “casa di preghiera” (cfr. Mt 21,12-13; Mc 11,15-17; Lc 19,45-46)!

Al di là delle opinabilissime argomentazioni contro la gerarchia, frutto evidente di inveterati pregiudizi, una ulteriore dimostrazione del fatto di trovarci al cospetto di vuoti e contraddittori sofismi ci giunge allorché Zagrebelsky, in un altro contesto, con clamorosa incoerenza tesse questa volta l’elogio proprio dell’astrattezza sulla concretezza: ennesimo ossequio insomma alla morale opportunistica del perseguire “ciceronianamente” soltanto il “pro domo sua”![lxxxi] Oltretutto la circostanza ribadisce palesemente quale sia la tecnica luciferina adottata dal laicismo nel tentativo di delegittimare la Chiesa cattolica: quella cioè di fare come il “bue che dice cornuto all’asino”! E difatti è proprio da ciò che si riconosce da che parte stiano veramente le “corna”!
Sempre per contrapporsi ai fautori del riconoscimento storico dell’identità cristiana dell’Europa, in quanto ritenuto valore imprescindibile, Zagrebelsky avanza la tesi dell’odierna esistenza di una società che non ha certamente bisogno di “ripristinare le antiche egemonie culturali”,[lxxxii] poichè già in possesso di identità e valori sufficienti a garantirne una valida qualità morale. Tali valori sono quegli “apporti ideali che hanno plasmato la nostra vita collettiva assieme ad altrettante conquiste politiche, sociali e culturali: tolleranza nei confronti delle fedi di tutti, laicità, libertà e socialità, razionalismo, pluralismo, uguaglianza, diritti umani, costituzionalismo, democrazia”.[lxxxiii] Facendosi peraltro portavoce di una inopinata preoccupazione laicista a riguardo della salvaguardia della “dignità della persona umana” - non ci spiega però come possa essa conciliarsi con la pretesa, sempre laicista, della liceità della “sperimentazione medica sulle cellule staminali embrionali”, dell’“aborto” o dell’“eutanasia” - così prosegue: “Alla base c’è la persona umana come tale e la sua dignità, in quanto appartenente al genere umano e indipendente dalla appartenenza a questa o quella fede, religione, stirpe, comunità politica. Tutto questo, indubitabilmente, è identità. Essa, a differenza di quella dei procacciatori di identità perdute, non poggia su elementi concreti del tipo: una fede, una religione, una tradizione, una ideologia o una mitologia, una storia, una terra, una stirpe, ecc. Non poggia su unità pre-date perché la democrazia pluralista, per condurre a una vita comune le sue tante componenti, senza far uso di violenza, deve far leva soprattutto su valori astratti, non concreti; formali o procedurali, non materiali. La tolleranza, per esempio, dice che dobbiamo riconoscerci e rispettarci nelle nostre diversità; non dice nulla, invece, sul contenuto di queste diversità e sul modo concreto di farle convivere (sic!). La democrazia promette procedure amichevoli per dare soluzioni ai conflitti politici, ma è un metodo, non il contenuto di una decisione (sic!). Per quanto astratti e formali, tuttavia, questi non sono ‘meno valori’ di quelli materiali e concreti”.[lxxxiv] Sorvolando sulla clamorosa contraddizione con quanto egli stesso proclama, allorché dice: “…l’atteggiamento etico che si richiede non è quello rigidamente deduttivo da astratti principi di verità”[lxxxv], vogliamo invece soffermarci sulle sue disarmanti ammissioni riguardanti le “incertezze” insite nel sistema democratico: incertezze le quali, proprio in quanto tali, non garantiscono né fanno sperare nulla di durevole. Viene da chiedersi insomma, perchè mai si dovrebbe preferire “scommettere” sugli astratti valori laicisti i quali, se tutto andasse per il meglio, potrebbero risultare suscettibili di garantire tutt’al più una “effimera, serena convivenza delle diversità”; mentre viene rigettata la trascendente verità di Cristo Gesù che invece promette e garantisce una “eterna, felice unificazione delle diversità”! Ancora una volta si professa come più auspicabile il mantenimento delle “divisioni” (dia-ballo), ossia il mantenimento forzato della “distanza tra le differenze”, che non la ricerca del “superamento di ogni differenza” proprio alla luce della sussistenza di una dignità comune: quella appunto secondo cui l’essere umano è “fatto ad immagine e somiglianza di Dio”. Solamente ponendosi in maniera ordinata alla medesima distanza rispetto ad un “punto centrale”, che è Gesù Cristo, infiniti punti giungeranno infatti a “identificarsi” tutti assieme come parte ordinata della “circonferenza”! Tale è la vera “identità”, cioè quella vera “uguaglianza e fraternità dell’uomo (rispetto a Dio-Verità)” che dà vita alla sua vera “libertà (rispetto al peccato-errore)”! Altro che mistificanti “liberté, fraternité, égalité”!
A questo punto Zagrebelsky prefigura un pericolo: quello cioè che una mancata accettazione delle premesse laiciste conduca verso uno “scontro sociale o di civiltà”: ipotesi che lo convince così profondamente dal ribadirla molto di sovente.[lxxxvi] Ad esempio, in occasione del referendum del 12-13 giugno 2005, quando presagiva “ombre durature sul futuro della convivenza civile nel nostro Paese”.[lxxxvii] Tuttavia, dando erroneamente per scontato che la “gente comune” non aspettasse altro che lo scontro sociale o di civiltà, come era ovvio egli si è invece dimostrato un “falso profeta”! Ma non solo! A ben vedere è in realtà lui stesso che ama continuare a tirare in ballo il fantasma del “nemico” con l’evocarne uno, teoricamente ed in maniera preventiva, per la Chiesa: cioè a dire l’uomo del “dubbio”! Scrive infatti: “Per la mentalità dogmatica, l’avversario è il nemico, il miscredente, se non il folle…Uomini del dogma:…i loro naturali nemici sono gli uomini del dubbio”.[lxxxviii] Si direbbe che l’artata assegnazione di un nemico alla Chiesa voglia servire in realtà a scaricare su di Essa l’esclusiva responsabilità per l’insorgere di eventuali diatribe! Ma il clamoroso fraintendimento è che se il “nemico” è colui che “non è amico”, ed è pertanto “colui che non si ama”, ebbene la Chiesa non può costruirsi “di propria scelta” un “nemico”, in quanto Essa “tutti ama” (cfr. Lc 6,27-38): l’unica persona a “non poter amare” è l’anticristo, in quanto “personificazione” del male, ovvero ciò che si oppone al bene per propria natura ontologica! Evocare una propria posizione personale che sia “al di fuori” dell’amore della Chiesa di Cristo Gesù, come fa il laicista, implica piuttosto la “deliberata scelta di porsi nell’errore”. Se d’altra parte la fedeltà intransigente della Chiesa ai propri principi comporta pure la necessità di difenderli da chi li vorrebbe annientarli, non sussiste insomma nessuna logica giustificazione per chi voglia speculare su questo sacrosanto diritto-dovere della Chiesa medesima, tacciandoLa di aggressività! La Chiesa rifiuta l’“errore”, ma ha misericordia dell’“errante”; ed infatti è stato giustamente osservato che: “La Chiesa è intransigente nei principi, perché crede; tollerante nella pratica perché ama. I nemici della Chiesa sono tolleranti nei principi, perché non credono; intolleranti nella pratica perché non amano ”.[lxxxix]
Questa inidoneità all’“amore”, virtù la cui caratura spirituale si colloca certamente molto al di sopra rispetto a quella della “tolleranza”, è il doloroso frutto che inevitabilmente accompagna chi, come il laicista, difetta di “speranza”. Zagrebelsky, citando Norberto Bobbio e condividendo pienamente con lui l’infelice presunzione dell’uomo che sceglie di vivere “senza Dio”, riporta queste sue parole: “Non ho nessuna speranza. In quanto laico, vivo in un mondo in cui è sconosciuta la dimensione della speranza:…la speranza è una virtù teologica…Le virtù del laico sono altre: il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione, il non prevaricare, la tolleranza, il rispetto delle idee altrui, virtù mondane, civili…La salvezza, se salvezza ci può essere, non verrà da altri che da noi stessi”.[xc]
Resosi tuttavia conto che ciò potrebbe dar atto ad una penosa deriva verso la “rassegnazione”, specifica: “C’è qualcosa di simile a una speranza, una speranza laica?…Bobbio è un uomo di ragione e scommette pascalianamente non sulla fede in un Dio trascendente…ma sulla ragione umana. A chi chiedesse quali buone ragioni d’essere vinta ha dalla sua questa scommessa, si dovrebbe rispondere semplicemente: nessuna buona ragione, ma è l’unica speranza per l’essere umano: e più non dimandare”.[xci] E così conclude: “Nel suo (di Bobbio) universo concettuale non esiste un ‘altro mondo’ diverso dal nostro; l’esodo (ossia il ritorno alla vita dopo la morte) è un’immagine consolatoria; il messia, un’illusione pericolosa. Noi siamo e resteremo nel nostro mondo, il mondo che costruiamo con le nostre forze. Siamo e resteremo nel labirinto. Il labirinto non è luogo dal quale si possa uscire e non possiamo attenderci nulla da fuori, meno che mai la nostra ‘salvezza’. …Il senso della vita…è lavorare insieme, nel dialogo e nel rispetto reciproci, nel rigore analitico, nell’assenza di dogmi messianici, affinché la condizione del labirinto, che è la condizione umana, sia progressivamente resa più sopportabile, più umana, meno ingiusta. Tutto il resto non è che teologia politica. Se poi, indipendentemente da noi, ‘alla consumazione dei tempi’ qualcosa (e che cosa) da fuori accadrà, sono solo punti interrogativi”.[xcii] Da questo agghiacciante affresco della “disperazione” emergono nuovamente i caratteri anticristici del laicismo, il quale sovverte ancora una volta in uno pseudotipo il carattere di stabilità e certezza della “speranza” (in quanto sicura attesa della beatitudine eterna e dell’assistenza della grazia per conseguirla), riducendola ad instabile, malsicuro, ambiguo ed incerto “auspicio” di un “non si sa bene che”: una “pseudosperanza” insomma! Per esprimere la propria concezione esistenziale, tanto Bobbio quanto Zagrebelsky scelgono l’immagine dell’“errabondo nel labirinto” - tra le tre che Wittgenstein aveva elevato ad altrettanti paradigmi significativi della vita individuale e collettiva -[xciii] e ritengono che tutti gli sforzi applicati, le scelte adottate, i rischi affrontati, gli sbagli commessi da chi stia cercando la “via d’uscita” da tale “labirinto” rimangano atteggiamenti unicamente assoggettabili al controllo della propria ragione: privi cioè della speranza “in un intervento esterno”. Fin qui nulla di nuovo, essendo essi dei convinti pragmatico-razionalisti nonché atei; ma la stonatura insorge quando, in maniera contraddittoria, ci viene ricordato da Zagrebelsky che Bobbio aveva altresì affermato: “Come ho detto tante volte, la storia umana, tra salvezza e perdizione, è ambigua. Non sappiamo neppure se siamo noi i padroni del nostro destino”![xciv] Per di più entrambi alla fine mostrano addirittura incertezza sulla reale esistenza di una “via d’uscita” da tale labirinto: “…Non sappiamo se c’è l’uscita ma…dobbiamo sperare che ci sia e operare quindi come se ci sia e su questo esile filo costruire la nostra speranza, la speranza degli uomini di ragione e non di fede”.[xcv] In altre parole, tanto Bobbio quanto Zagrebelsky si costruiscono un “labirinto” che a ben vedere partecipa anche delle caratteristiche delle due ulteriori immagini paradigmatiche teorizzate da Wittgenstein: “la mosca nella bottiglia” ed “il pesce nella rete”. Volendo uscire dalla propria trappola la mosca è soggetta alla “ buona sorte” (trovare l’apertura non tappata), il pesce rimane invece vittima della “necessità” (più si dibatte nella rete, più vi si impiglia). Continua...


[i] Per la serie La biblioteca di Repubblica – Idee, 9 maggio 2007.
[ii] Che la “buona fede” (lat. bona fides) non possa rappresentare un presupposto di “verità”, ma piuttosto di “ingenuo relativismo” e che quindi non costituisca nemmeno una scusante, lo dimostra già soltanto la distinzione presente in campo giuridico tra le figure di “buona fede soggettiva” e “buona fede oggettiva”. Oltretutto, a monte di questo, è praticamente riconosciuta in maniera unanime dai giuristi un’inattendibilità delle definizioni univoche di “buona fede”, a motivo di una sua peculiare indeterminatezza di contenuto che fa preferire ad essa piuttosto l’uso di sinonimi o perifrasi. Ma a parte ciò: al cattolico è stata richiesta non tanto la “buona fede” quanto la “buona volontà”!
[iii] Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “organizzata, nutrita e guarita” (cfr.739).
[iv] Catechismo della C.C., 750.
[v] S.Bernardo di Chiaravalle, In canticum sermo, 27, 7, 14: Opera, ed. J.Leclerq-C.H.Talbot-H.Rochais, v.1, Roma 1957, pg.191.
[vi] Concilio Vaticano II, Cost.dogm. Lumen Gentium, 31.
[vii] Cfr. De ecclesiastica hierarchia, V,III,7: PL 3,513.
[viii] Cfr. il classico principio canonista: “utique maioritatem tribuit et exceilentiam sed non superioritatem”. Del resto, “Eminenza ed Eccellenza” sono proprio i titoli pertinenti all’Alto clero.
[ix] Catechismo della C.C., 895-896.
[x] Cfr. Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.23, pg.79.
[xi] Cfr.Idem, pg.45 seg.; pg.94 sg.
[xii] Cfr.Idem, pg.45; pg.87; pg.96 sg.
[xiii] Cfr.Idem, pg.43 sg.
[xiv] Cfr.Idem, pg.46.
[xv] Idem, pg.159.
[xvi] Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n.59.
[xvii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.94.
[xviii] Idem, pg.159.
[xix] Idem, pg.95.
[xx] Cfr.Idem, pg.91 sgg.
[xxi] Non possumus: la Chiesa divide la società?, Intervento di G.Zagrebelsky all’incontro organizzato da “Libertà e Giustizia” presso l’Unione Culturale di Torino, 21/3/2007.
[xxii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.83.
[xxiii] Idem, pg.54.
[xxiv] Idem, pg.158.
[xxv] Non possumus: la Chiesa divide la società?, cit.
[xxvi] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.83.
[xxvii] Cfr. Idem, pg.111.
[xxviii] Idem, pg.99.
[xxix] Idem, pg.85.
[xxx] Ibidem, sg.
[xxxi] Cfr. Idem, pg.87.
[xxxii] Concetto condannato nella Alloc. Maxima quidam, 9 giugno 1862 e nel Syllabus di Pio IX.
[xxxiii] Catechismo della C.C., 212.
[xxxiv] Idem, 314.
[xxxv] Idem, 303.
[xxxvi] Idem, 395.
[xxxvii] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.82.
[xxxviii] Idem, pg.80.
[xxxix] Idem, pg.48.
[xl] Idem, pg.81.
[xli] Ibidem.
[xlii] Idem, pg.84.
[xliii] Idem, pg.20.
[xliv] Idem, pg.125.
[xlv] Idem, pg.96.
[xlvi] Idem, pg.125 sg.
[xlvii] Idem, pg.20.
[xlviii] Idem, pg.47.
[xlix] Idem, pg.125.
[l] Idem, pg.22.
[li] Idem, pg.23.
[lii] Luigi Capozza, Verità, Carità e Chiesa secondo G.Zagrebelsky, in http://www.arealocale.com/, 26/7/2006.
[liii] G. Zagrebelsky, Un decalogo contro l’apatia politica, Relazione tenuta al convegno nazionale del Cidi, 4 / 3 / 2005. Vd. pure Imparare la democrazia, Einaudi, Torino 2007.
[liv] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.22.
[lv] Ibidem.
[lvi] Cfr. Catechismo della C.C., 86 e 88.
[lvii] Idem, pg.19.
[lviii] Cfr. Catechismo della C.C., 2088.
[lix] Cfr. idem, 150.
[lx] Zagrebelsky lo cita in realtà come Salmo 62, seguendo la numerazione ebraica piuttosto che quella latina!
[lxi] Cfr. Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.19.
[lxii] Ibidem.
[lxiii] Cfr. Idem, pg.21.
[lxiv] Idem, pg.20 sg.
[lxv] Idem, pg.22.
[lxvi] S.E. Cardinal Juliàn Herranz, L’umanità è al bivio, in L’Osservatore Romano, 15 novembre 2000.
[lxvii] M.Adinolfi, Gli apprensivi amanti della democrazia, http://www.leftwing.it/, 26/3/2007.
[lxviii] Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, n.90.
[lxix] Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n.12.
[lxx] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.53.
[lxxi] Idem, pg.66.
[lxxii] Idem, pg.118.
[lxxiii] Idem, pg.119 sgg.
[lxxiv] Catechismo della C.C., 1822.
[lxxv] Idem, 1812.
[lxxvi] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.118 sg.
[lxxvii] Idem, pg.121.
[lxxviii] Ibidem.
[lxxix] Catechismo della C.C., 1828.
[lxxx] Lo Stato e La Chiesa, pg.109.
[lxxxi] “Ciò che conviene a sé stessi”.
[lxxxii] Cfr. Lo Stato e La Chiesa, op.cit.,pg.105 sg.
[lxxxiii] Cfr. Idem, pg.107 sg.
[lxxxiv] Idem, pg.108.
[lxxxv] Idem, pg.125.
[lxxxvi] Cfr. Idem, pg.37; pg.43; pg.53; pg.108 sg. Cfr. pure Non possumus: la Chiesa divide la società?, op.cit.
[lxxxvii] Idem, pg.43.
[lxxxviii] Idem, pg.21 sg.
[lxxxix] Garrigou-Lagrange, O.P., Dieu, Son Existence et Sa Nature, Ed. Beauchesne, Paris 1950, vol II, pg.725.
[xc] Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pgg. 131-134.
[xci] Ibidem.
[xcii] Idem, pg.136 sg.
[xciii] Cfr. Lo Stato e La Chiesa, op.cit., pg.132 sgg.
[xciv] Idem, pg.134.
[xcv] Ibidem.